sabato 7 ottobre 2017
Dall’incontro con i Papi ad Assisi alla guida di una diocesi crocevia di quattro regioni. Dall’eredità viva di don Orione al problema dello spopolamento, parla il vescovo di Tortona
Il vescovo Vittorio Viola durante un pellegrinaggio a Lourdes (Radio Pnr)

Il vescovo Vittorio Viola durante un pellegrinaggio a Lourdes (Radio Pnr)

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Tortona è una diocesi antica, ricca di storia e di fede. Patria di san Luigi Orione e di monsignor Lorenzo Perosi. Una diocesi – caso unico nella penisola – incastonata all’incrocio di più regioni. Ne è vescovo il francescano Vittorio Viola, originario del biellese, che papa Francesco ha nominato il 15 ottobre 2014 dopo averlo conosciuto personalmente nel corso della sua visita ad Assisi, il 4 ottobre 2013. Incontriamo Viola nell’episcopio di Tortona che sorge a fianco della bella Cattedrale che custodisce le reliquie di san Marziano, tradizionalmente indicato come il primo vescovo della città, martirizzato nel II secolo.

Eccellenza, lei ha avuto modo di incontrare papa Francesco già nel 2013.

Ad Assisi ho avuto la possibilità di incontrare tutti i Papi che hanno visitato la città di san Francesco: san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e anche Papa Francesco. Tre grandi doni che il Signore ha dato alla Chiesa in una continuità che a volte un po’ superficialmente non sappiamo cogliere ma che è ben presente nel loro Magistero anche se formulato con stili diversi.


E l’incontro con Francesco?

È stato molto coinvolgente, molto umano. Il Papa aveva espresso il desiderio di pranzare con i poveri. Una scelta che ora ci sembra abituale, ma all’epoca ci aveva sorpreso. Di solito le visite papali prevedevano il pranzo nel refettorio del Sacro Convento, con le autorità e le varie rappresentanze. Era prevista anche una presenza di fratelli e sorelle in situazioni di povertà. In realtà il Pontefice voleva stare insieme a loro dove normalmente consumavano i pasti. Allora ero responsabile della Caritas diocesana di Assisi e insieme all’arcivescovo Domenico Sorrentino abbiamo offerto la possibilità di fermarci per il pranzo al centro di prima accoglienza di Santa Maria degli Angeli. Ciò che colpiva era l’attenzione personale che il Papa sapeva dare a ciascuno dei presenti, non formale, non di cortesia, ma sentita. Uno sguardo che a fratelli e sorelle devastati dalla vita, ridava dignità. Si avvertiva che per ciascuno di loro quell’incontro era l’incontro con lo sguardo di Dio su di loro. La sua è stata proprio una carezza di Dio per tutte le persone in difficoltà che si trovavano lì.

Come ha saputo della sua nomina?

Come avviene di solito. Una telefonata dalla nunziatura che mi convocava con urgenza a Roma. Ma non andai subito, perché eravamo a ridosso della festa di san Francesco e non potevo lasciare Assisi. Dopo, in via Po, mi diedero la comunicazione. Ho accolto questa chiamata in spirito di obbedienza affidandomi al Signore, perché se si dà spazio a valutazioni e ragionamenti è più difficile farlo.

Come è diventato frate francescano?

Prima di iniziare l’università (mi ero iscritto a medicina) ho incontrato i frati ad Assisi. Ho partecipato a uno dei corsi per i giovani che si organizzano alla Porziuncola. Là ho vissuto una esperienza viva, un incontro vero con il Signore. Sono tornato più volte e dopo un anno ho deciso di entrare nell’Ordine dei Frati Minori. Nel percorso della mia formazione ho avuto la grazia di approfondire lo studio della liturgia al “Sant’Anselmo” che mi ha permesso di comprendere, o almeno di intuire, la bellezza e la ricchezza del celebrare.

Come la aiutano ora le esperienze nella Caritas e gli studi liturgici?

È stato importante per me mettere insieme le due cose. Lo studio e l’approfondimento della celebrazione e il contatto reale con la vita e con le sue difficoltà. Non sono cose diverse. L’incontro con Cristo che si compie in pienezza nella celebrazione dei sacramenti è lo stesso incontro con Cristo che vivi accogliendo il fratello povero. È sempre lo stesso volto di Cristo che incontri. L’esperienza in Caritas mi ha aiutato anche nel campo pratico. Il vescovo in quanto pastore è chiamato ad annunciare la Parola, ma ha delle responsabilità amministrative, a volte fin troppe, a cui deve provvedere con la dovuta diligenza. Senza perdere di vista però ciò che è essenziale.

Tortona, diocesi ricca di storia e fede. San Luigi Orione su tutti.

Di don Orione rimane un ricordo vivo, che viene ancora tramandato nelle famiglie nei ricordi degli anziani che hanno potuto conoscerlo personalmente a Tortona o nelle nostre valli. Don Orione era un prete della nostra diocesi e la sua è una eredità da custodire non solo per la famiglia orionina, ma anche per tutta la comunità diocesana. Con le sue opere ci ha insegnato ad avere piena fiducia nella Divina Provvidenza e a dimostrare con gesti concreti una attenzione particolare ai piccoli, ai più poveri.

Così da stupire anche un laico come Silone che ne fece un ritratto commovente in “Uscita di sicurezza”.

Esattamente. San Luigi Orione nell’emergenza del terremoto di Avezzano si mise subito a disposizione. E partì, con i pochi mezzi dell’epoca, per sporcarsi la tonaca nel portare aiuto a quelle popolazioni.

La storia della diocesi di Tortona è segnata anche dall’opera di un altro grande prete, don Remotti.

È vero. Cominciò il suo apostolato con l’emergenza dei profughi istriano-dalmati e poi fondò il Centro Paolo VI che da sempre ha accolto e curato ragazzi con disabilità e oggi offre un servizio di eccellenza per il disagio psichico dei ragazzi adolescenti.

Tortona ha anche una forte tradizione culturale: ha dato i natali a monsignor Lorenzo Perosi, maestro della Cappella Sistina dal 1898 al 1956.

È una tradizione che cerchiamo di tenere viva con tante iniziative. C’è anche una carità culturale di cui il mondo ha molto bisogno, specialmente in un’epoca come questa in cui tendiamo ad essere superficiali, distratti, consumatori e basta.

Tortona è una città di confine. Insiste su più regioni: Piemonte, Lombardia, Liguria. E appartiene alla regione ecclesiastica ligure. Come vive questa realtà unica nella Chiesa italiana?

La diocesi comprende anche un piccolo lembo del piacentino, in Emilia Romagna. Complessivamente abbiamo circa 140 parrocchie in Piemonte, altrettante in Lombardia, una trentina nell’entroterra ligure. La città più grande non è Tortona, ma Voghera. Vista da fuori potrebbe sembrare una strana configurazione. Queste aree hanno sensibilità e peculiarità differenti. Anche avere a che fare con diverse amministrazioni regionali a volte può creare delle difficoltà. In realtà la diocesi, in virtù delle sue antiche radici, ha una sua identità con un forte senso di appartenenza.

Le caratteristiche della diocesi?

È un territorio molto vasto, che ha come polo di attrazione soprattutto Milano. Non abbiamo Università e grosse realtà lavorative: si avverte il rischio che le nostre diventino città-dormitorio. Dal punto di vista ecclesiale contiamo 312 parrocchie. Un numero enorme. Frutto di un periodo in cui il presbiterio contava 430 preti e per ciascuno occorreva offrire un ufficio. Adesso i sacerdoti diocesani, compresi i più anziani e coloro che si sono ritirati, sono circa 110. Ed è evidente, anche solo da questi numeri, che bisogna ripensare la presenza delle comunità e approfondire una lettura del territorio iniziata nel 1993 col Sinodo diocesano. Le valli si stanno spopolando. Diverse parrocchie ormai hanno solo una attività stagionale, in estate. Mentre si sono rafforzati i centri più grandi. Non si tratta solo di una riorganizzazione per un mantenimento delle posizioni: si tratta, piuttosto, di rilanciare l’annuncio del Vangelo nella situazione attuale.

In questo contesto quali le sfide?

Quelle che ci propone Papa Francesco, in continuità con i suoi predecessori. Riscoprire la gioia dell’annuncio del Vangelo. A volte siamo portati al lamento, al rimpianto di bei tempi andati, che forse, a giudicare da alcuni frutti, poi tanto belli non erano. Di fronte ad una società che è ormai al capolinea del processo di secolarizzazione non possiamo fissarci sulle nostre lamentazioni ma dobbiamo vivere questo momento storico come una opportunità straordinaria di annuncio del Vangelo che non ha perso nulla della sua forza, della sua potenza.

Come è possibile?

Dobbiamo passare da una pastorale di semplice mantenimento ad una pastorale sempre più missionaria verso una società che magari conserva dei tratti tipici di una tradizione cristiana ma ha ormai perso il Vangelo come riferimento per la vita. E dobbiamo compiere una conversione pastorale profonda, senza paura di cambiare stili, atteggiamenti e anche orari. La modalità “un campanile, un prete” non è più praticabile da tempo. Bisogna pensare a comunità pastorali nelle quali le singole parrocchie non perdono le loro identità, mettono però in atto una comune azione pastorale. Dobbiamo farlo con gradualità, ma anche con urgenza.

IL PROFILO DI MONSIGNOR VIOLA

Vittorio Francesco Viola è nato a Biella il 4 ottobre 1965. Dopo il diploma di maturità scientifica è entrato nell’Ordine dei Frati Minori dell’Umbria e ha frequentato l’Istituto teologico di Assisi. Ha frequentato, poi, il Pontificio Istituto liturgico Sant’Anselmo a Roma, dove ha conseguito prima la licenza e, quindi, il dottorato in sacra liturgia. Ha emesso la professione solenne nell’Ordine dei Frati Minori dell’Umbria il 14 settembre 1991, a Santa Maria degli Angeli ed è stato ordinato sacerdote il 3 luglio 1993 nella Basilica di Santa Maria degli Angeli dal vescovo Luca Brandolini. È stato custode del convento e della Basilica papale di Santa Maria degli Angeli in Porziuncola dal 1999 al 2005, responsabile dell’Ufficio liturgico regionale dell’Umbria dal 1997 al 2014, responsabile della Caritas diocesana dal 2008 al 2014. Ha insegnato al Sant’Anselmo e all’Istituto teologico di Assisi. Il 15 ottobre 2014 papa Francesco lo ha nominato pastore di Tortona ed è stato consacrato dai vescovi Sorrentino e Canessa e dal cardinale Bassetti. È membro della Commissione episcopale della Cei per la liturgia.

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