mercoledì 15 ottobre 2014
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«Un cammino lungo ma fruttuoso che apre alla speranza e permette di alzare lo sguardo con una consapevolezza nuova e più fondata verso il futuro della famiglia». Teresa e Gianni Andreoli, responsabili nazionali dell’Equipe Notre Dame (End), guardano con fiducia al dibattito in corso al Sinodo e, anche alla luce della relazione presentata lunedì dal cardinale Erdö, si sentono di condividere l’urgenza di una sfida per discernere – come si legge nella relazione – «le vie con cui rinnovare la Chiesa e la società nel loro impegno per la famiglia». E quando si parla di famiglia, e in particolare di vita spirituale della coppia, End, con i suoi oltre 8mila aderenti in Italia (4mila coppie e 800 tra sacerdoti, consacrati e consacrate) e la sua diffusione in circa 70 Paesi del mondo, esprime un cammino che arriva da lontano.Una ragione di speranza e un motivo di preoccupazione nel dibattito in corso?La speranza è nel vedere come il desiderio di famiglia resti vivo soprattutto nei giovani, la preoccupazione nasce dal constatare come questo desiderio si trovi talvolta a disagio E da dove nasce questo disagio?Dalla tendenza di presentare in modo univoco ed esclusivo un archetipo strutturale classico di famiglia, senza considerare che quel modello è stato messo in crisi dalle variazioni sociali e culturali come il lavoro che non c’è, le difficoltà nel trovare una casa, la precarietà, l’individualismo...Da qui la sfida di ripresentare il Vangelo del matrimonio e della famiglia con stile e parole rinnovate.La vera sfida consiste nel saper riconoscere il bello nell’amore tra le persone, quando l’amore è donazione, servizio, cura dell’altro, sacrificio e gioia.Non rischiamo di risultare un po’ generici, dimenticando che nell’amore c’è anche responsabilità e omologare famiglia fondata sul matrimonio e altri tipi di unioni finirebbe per essere un’ingiustizia?Un conto sono le valutazioni socio-culturali, un altro quelle pastorali. E allora, di fronte a considerazioni come quelle espresse nella relazione ci domandiamo: siamo uomini e donne che guardiamo come Cristo? O piuttosto scegliamo i soggetti del nostro orizzonte limitandolo alle situazioni che ci interrogano di meno? E se li guardiamo con l’amore di Dio, come possiamo escluderne qualcuno, mettere limiti all’amore stesso del Signore?Un termine a cui spesso si è fatto ricorso in questi giorni, anche di fronte alle numerose richieste di apertura, è gradualità. Giusto?Sì, e questo inevitabilmente riporta ad una prospettiva inclusiva, attraverso il sentirsi chiamati a tracciare sentieri di comunione e ricerca comune dei germi di santità quotidiana. Siamo chiamati ad accompagnare con cura, attenzione, affetto chi è segnato da un amore ferito. E questo è il vero annuncio che viene chiesto oggi.Inclusioni come sforzo di accoglienza?Sì, spesso le esclusioni derivano dal credersi possessori di una verità. Ma la verità dev’essere vista e vissuta come possibilità che guarisce la fragilità umana e non la condanna. Il Samaritano usa l’olio e il vino per curare le ferite, a ribadire la sacralità del ferito stesso e la festa dell’incontro.Questa grande attenzione per le fragilità non rischia di dimenticare le famiglie "normali", quelle che comunque si sforzano di vivere secondo le indicazioni della Chiesa?La nuova attenzione alle situazioni critiche, proprio in un’ottica di gradualità, attribuisce a questo termine una possibilità concreta di accoglienza nei confronti di quelle situazioni di sofferenza, ma da cui emerge anche una grande e fondata speranza nell’amore di Dio. E nell’amore di Dio c’è spazio per tutti. Le famiglie che camminano e quelle che fanno fatica a tenere il passo.In tutto il dibattito sinodale rimane centrale l’impegno educativo e la preparazione al matrimonioÈ un punto veramente cruciale che va visto come la formazione alla scoperta di una vocazione: prima e dopo, nei primi anni, ma anche lungo la vita della coppia. Ed è proprio l’impegno che come End, cerchiamo di proporre nell’ambito dei nostri incontri.
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