giovedì 17 ottobre 2019
La testimonianza di Justino Sarmento Rezende. E Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho: l’annuncio del Vangelo è un annuncio di vita nuova, senza però abbandonare le proprie tradizioni
Un'immagine del Sinodo per l'Amazzonia (Siciliani)

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Che vuol dire una Chiesa dal volto amazzonico? Vuol dire che si radica nelle sue tradizioni, nella sua cultura, che evangelizza nella propria lingua e approfondisce la dottrina della Chiesa. Questo significa anche che sono oggi gli stessi indigeni battezzati a chiedere come evangelizzare, annunciare la Buona Novella nel modo migliore». A parlare con pacata saggezza è un sacerdote indio di etnia tuyuka. Justino Sarmento Rezende, sacerdote salesiano, segretario provinciale della provincia di São Domingos Sávio a Manaus in Brasile, l’unico indigeno ad essere stato inserito nel Consiglio di preparazione del Sinodo sull’Amazzonia e l’unico prete indio a prenderne oggi parte come esperto.

In breve racconta la storia della sua vocazione nel corso del briefing in Sala Stampa vaticana. «È nata quando ho visto i missionari che insegnavano il catechismo ai miei nonni, e loro non capivano la lingua portoghese. Io ero un adolescente, e lì la scintilla, ho pensato che anch’io potevo un giorno diventare un sacerdote e avrei annunciato il Vangelo non in portoghese ma nella mia lingua». Padre Justino viene dall’Alto Rio Negro, è nato in un ambiente familiare cristiano, suo padre e sua madre catechisti, è prete da 25 anni. Ma la sua vita religiosa è iniziata con discredito da parte degli stessi sacerdoti non indigeni. Quando infatti nel 1976 nella sua diocesi venne istituito un Seminario, insieme ad altri cinque giovani indigeni andò a chiedere come si diventava sacerdoti. «La risposta che allora ottenemmo è stata: “No, essere prete non è per voi indiani! Andate a giocare!” – racconta – e noi andammo a giocare a pallone, poi però entrai nel Seminario a Manaus». «Questo lo dico – aggiunge – perché è dal 1980 circa che la Chiesa ha iniziato un processo di inculturazione e ha iniziato a capire che noi indigeni evangelizzati possiamo anche diventare degli evangelizzatori, diventare sacerdoti e poter dire “noi siamo Chiesa e annunciamo il messaggio del Vangelo affinché s’incarni nelle persone”».

Ma il celibato può costituire il principale ostacolo che causa la mancata presenza di sacerdoti indigeni in Amazzonia? «Il celibato non è qualcosa che nasce con la persona. Nessuno tra noi qui presenti è nato con il celibato – ha risposto – questo è un dono di Dio, che Dio dona a persone di qualsiasi cultura presente nel mondo e le persone possono viverlo quando liberamente e non forzatamente vogliono prendere questo stile di vita, e si può viverlo con l’impegno, la preghiera e l’aiuto delle persone». «Ai miei tempi gli unici sacerdoti erano i bianchi – spiega – e quindi quando noi siamo diventati sacerdoti qualcuno poteva dire che gli indigeni hanno difficoltà a vivere il celibato».

«Pertanto se arrivasse un giorno in cui capissi che il celibato non fa più per me, lascerei» risponde il sacerdote esperto in spiritualità indigena e pastorale inculturata. «L’inculturazione non si fa con il proselitismo, ma con la testimonianza», ribadisce Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho in Brasile e presidente del Cimi, ricordando che «ogni processo di inculturazione rispetta il processo da entrambi le parti: non si tratta di imporre una cultura dall’alto, ma di preservare i semi presenti in ogni cultura. Nessuna cultura è perfetta, tutti noi abbiamo bisogno di adeguarci per diventare una nuova creatura: l’annuncio del Vangelo è un annuncio di vita nuova, senza però abbandonare le proprie tradizioni».

«Si tratta di processi lenti, che non nascono da un momento all’alto – ha osservato – ed è molto importante che i missionari e i laici lavorino insieme, per il miglior lavoro possibile a favore del popolo amazzonico».

Sulla questione della tutela dei diritti delle popolazioni indigene si è poi ribadito il rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione. Lo hanno nuovamente sottolineato il vescovo Paloschi e Felicio de Araujo Pontes Junior, procuratore della Repubblica, specialista in diritti dei popoli indigeni. «La Costituzione del 1988 – ha spiegato Paloschi – prevedeva che entro il 1993 tutte le terre dei popoli originari dovessero essere demarcate, omologate e registrate, mentre ne sono state demarcate nemmeno un terzo, e quelle che non sono state demarcate sono state invase, prese di mira dai cercatori d’oro, dalle industrie minerarie, dalle industrie del petrolio e da quelle dello sfruttamento del legname». «La Chiesa si assuma, come istituzione, la responsabilità della difesa dell’Amazzonia», è stato l’appello lanciato da Patricia Gualinga, leader indigena nella difesa dei diritti umani delle comunità kichwa di sarayaku in Ecuador.

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