martedì 19 febbraio 2019
Padre Faggioni: se due persone, all'interno della relazione amicale, attuano valori umanamente significativi, impossibile negare che quella relazione non produce del bene
Padre Maurizio Faggioni

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Chiesa e omosessualità, un lento, faticoso avvicinamento. Dalle condanne di Pio V (1504-1572), con la tristemente nota bolla in cui i "sodomiti" venivano accusati di essere più o meno il male del mondo, all’accoglienza dei nostri giorni in cui, «c’è il tentativo di guardare senza pregiudizi una situazione esistenziale conturbante per la sensibilità cristiana, ma che sarebbe ingiusto giudicare a priori assolutamente incapace di inverare valori umani e cristiani», osserva padre Maurizio Faggioni, teologo morale, medico e bioeticista, autore di numerosi studi sul tema.

«Le apertura per un’accoglienza positiva delle persone omosessuali e delle loro qualità, e di valorizzazione di aspetti di una relazione omosessuale hanno suscitato comprensibile perplessità e riserve durante le discussioni del duplice Sinodo sulla famiglia 2014-2015. Amoris laetitia, alla fine, ribadisce il Magistero precedente sottolineando comunque aspetti importanti come la dignità di ogni persona "indipendentemente dall’orientamento sessuale", l’impegno ad evitare "ogni marchio di ingiusta discriminazione" e "ogni forma di aggressione e violenza", l’assicurazione di rispettoso accompagnamento alle famiglie "affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita» (Al. 250).

C’erano state aperture più significative nel corso del dibattito e negli altri documenti sinodali?
Rispetto alla Relazione finale, la Relazione dopo la discussione presentata come sintesi dei lavori della prima settimana del Sinodo straordinario del 2014, aveva un respiro pastorale più audace e si proponeva muoversi in una linea di continuità, ma anche di approfondimento rispetto al magistero precedente.
Il magistero post-conciliare ha abbandonato i toni punitivi della Tradizione, ha considerato l’orientamento omosessuale in sé non colpevole, ha rivendicato la dignità e i diritti delle persone omosessuali in quanto persone e figli di Dio. La Relazione dopo la discussione proponeva di valorizzare il ruolo delle persone omosessuali nella comunità cristiana e cercava cogliere gli elementi positivi che può contenere una relazione omoaffettiva.

E quali elementi metteva in luce?
Al n. 50 si affermava che «le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana» e si chiedeva: «Siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? Spesso esse desiderano incontrare una Chiesa che sia casa accogliente per loro. Le nostre comunità sono in grado di esserlo accettando e valutando il loro orientamento sessuale senza compromettere la dottrina cattolica su famiglia e matrimonio?».

Eravamo comunque fermi a una serie di interrogativi.
Il Sinodo intercettava domande che emergono da alcune Chiese locali e accettava coraggiosamente la sfida, ma con grande prudenza perché qui è in gioco la comprensione cristiana dell’amore e della sessualità. La stessa Relazione, nei due punti seguenti (51e52), traeva le conseguenze di questa prospettiva spiegando che: «la questione omosessuale ci interpella in una seria riflessione su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica» e infine dava voce, a una apertura molto innovativa: «senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali, si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners» (n. 52).

Insomma, si diceva che anche l’amore omosessuale è degno di essere valorizzato in una prospettiva cristiana?
Potremmo dire così. Sarebbe difficile – per quanto io posso capire – sostenere la conciliabilità di una pratica omogenitale con il paradigma di antropologia ed etica sessuale cattolica, ma sarebbe ingiusto non apprezzare quanto di buono una relazione sostenuta da un affetto omosessuale potrebbe talora esprimere. Se due persone, all’interno della relazione amicale intensa e a motivo di questa relazione giungono ad attuare valori umanamente significativi, come la lealtà, la condivisione, la tenerezza, l’ascolto, l’aiuto, il servizio fino al sacrificio, come è possibile negare che quella relazione, nonostante tutto, possa produrre, per grazia di Dio, del bene?

È questa oggi la posizione della teologia morale? Almeno di quella che sta faticosamente cercando un equilibrio tra tradizione e innovazione?

La Chiesa che si confronta oggi con questa e con altre questioni scottanti ha bisogno di verità e di misericordia, di dialogo e di sapienza, tenendo fisso lo sguardo sull’ideale che riflette la gloria dell’imago, senza dimenticare che il fulgore della Luce si è nascosto nella kenosi dell’Incarnazione. In una parte della teologia si registrano fughe in avanti verso posizioni morali che suonano troppo dissonanti rispetto all’ideale antropologico cristiano, ma il dibattito merita di essere comunque affrontato. Una domanda ineludibile è se siano possibili riletture e approfondimenti delle posizioni tradizionali cattoliche tali che permettano di restare fedeli al paradigma di etica sessuale cristiano, ma, nello stesso tempo, aprano a forme di integrazione e di valorizzazione delle sessualità per così dire "alternative" che si presentano più o meno difformi dall’ideale.

Rimane però una grande attenzione a non fare confusione fra matrimonio sacramentale tra uomo e donna, e altri tipi di unione.
Qui anche Amoris laetitia pone una barriera insuperabile quando afferma che "non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia".
La visione dell’amore coniugale del Magistero cattolico – che condivido pienamente e che ritengo un dono per tutta l’umanità – ci porta ad escludere vincoli di natura anche solo analogicamente matrimoniale fra persone omosessuali. Mi sembra, tuttavia, ragionevole tenere una posizione più duttile verso alcuni diritti delle persone che vivono un legame esistenziale profondo e duraturo. Ci sono situazioni come, per esempio, una decisione medica per un paziente privo di conoscenza, nelle quali la parola di un compagno/a omosessuale può essere più espressiva della volontà del soggetto che non quella di un consanguineo. Ci sono aspetti patrimoniali che devono essere regolati con equità, come la eredità di una casa acquistata con i comuni sforzi di una coppia omosessuale o come la reversibilità della pensione per un compagno/a che si è preso cura per anni del compagno/a infermo. Potrebbe essere opportuno, insomma, per l’ordine sociale e la giustizia riconoscere una qualche rilevanza giuridica alla coppia omosessuale stabile, anche se questo non può portare al cosiddetto matrimonio omosessuale ovvero all’equivalente omosessuale del matrimonio, né dovrebbe essere fatto a scapito della famiglia naturale.

Anche l’adozione per le coppie omosessuali rimane inaccettabile per l’antropologia cattolica.
Quali sono i fondamenti che impediscono di prendere in considerazione questa possibilità?
La mancanza di fecondità della relazione omosessuale è una conseguenza della mancanza di differenza sessuale. Essa è segno, a ben guardare, della radicale incompiutezza della coppia omosessuale rispetto alla coppia coniugale. Nella coppia eterosessuale l’impossibilità fisica di generare ha un significato diverso che nella coppia omosessuale perché, anche se l’amore coniugale non riesce a incarnarsi concretamente nel figlio per un qualche ostacolo accidentale, tuttavia esso mantiene integra la sua apertura ad accogliere la vita: l’adozione del figlio permette alla coppia sterile di esprimere l’intrinseca fecondità del suo amore come capacità di accogliere una nuova vita. Nella coppia omosessuale, invece, non è anticipata l’apertura alla vita che è intrinseca all’amore coniugale.
Per questo si teme che un bimbo eventualmente adottato – come è permesso in alcune legislazioni – non trovi nella coppia omosessuale il contesto antropologico di cui egli ha bisogno per uno sviluppo psicoaffettivo armonioso e sano. Il tema è molto controverso sia per la non univocità e incompletezza di dati empirici fin qui raccolti sia per l’impostazione del problema che si è ormai diffusa nella cultura giuridica secolare che tende a privilegiare più il diritto degli adulti ad adottare che non il miglior interesse del minore.

Già oggi però ci sono coppie omogenitoriali presenti nelle nostre comunità. Chiedono i sacramenti per i loro figli, chiedono di essere valorizzate per quello che possono offrire. Difficile non affrontare il problema.
La possibilità di adozione in alcuni Paesi e la presenza di bambini affidati a coppie omosessuali solleva delicati problemi psicologici e pastorali che la Chiesa deve affrontare con coraggio e sapienza. Da una parte non possiamo equiparare la coppia omosessuale alla coppia coniugale, d’altra parte la Chiesa sente il dovere di cura e di accoglienza verso questi piccoli. Oggi parliamo di come accogliere i figli delle coppie omogenitoriali, ci interroghiamo sui nuovi paradigmi teologici.

Quando sono cominciati i primi segnali di disgelo dopo le chiusure dei secoli scorsi?
Il magistero post-conciliare è intervenuto più volte sul tema dell’omosessualità senza distaccarsi, dal punto di vista del giudizio oggettivo, dall’atteggiamento negativo della tradizione, ma tenendo conto sia dei dati provenienti dalle scienze umane, sia della riflessione teologica, sia di un generale atteggiamento di rispetto verso le persone e le loro storie. Importante la distinzione introdotta fra atti omogenitali e orientamento omosessuale.
Gli atti omogenitali, da chiunque siano posti e in qualsiasi contesto, continuano ad essere giudicati inaccettabili per la morale cattolica che ha come modello la relazione sponsale uomo-donna. L’orientamento omosessuale, invece, ancorché disordinato rispetto al paradigma eterosessuale, non può essere giudicato come colpevole: c’è largo consenso, infatti, che l’orientamento omosessuale non derivi da una scelta e neppure da una abitudine conseguente il ripetersi di atti omogenitali, ma sia profondamente radicato nella persona fin da primi anni di vita, se non addirittura, in qualche misura, prima della nascita. Essere omosessuali, insomma, non è peccato, anche se l’orientamento omosessuale inclina a compiere atti sessuali che non conformi all’ideale etico cristiano. L’assoluzione dalla responsabilità morale della condizione omosessuale non risolve, tuttavia, la questione della vita affettiva e sessuale degli omosessuali che si vedono preclusa ogni possibilità di intimità sessuale legittima e che sono, pertanto, invitati alla continenza perpetua.

Questo è destinato a rimanere un punto insuperabile o i diversi spiragli aperti da alcuni teologi finiranno per modificare questa norma morale?
Nella visione cristiana la sessualità è il linguaggio della comunione e dell’apertura all’alterità.
Per costituire una relazione totalizzante come il matrimonio non basta, però, aprirsi semplicemente a un’altra persona, prescindendo dal suo sesso, come nella relazione amicale. Davanti a un uomo, solo una donna può costituire una piena alterità e viceversa.
Qui sta il limite intrinseco della relazione omosessuale: nella relazione omosessuale la persona non esce e non può uscire dal cerchio del sé per autotrascendersi e incontrare l’altro-da-sé che è anche un altro sessuale. Non basta, ovviamente, essere eterosessuali per realizzare automaticamente una comunione totale con l’altro coniuge, ma alla relazione omosessuale manca la possibilità stessa di diventare pienamente sponsale, così che anche la relazione omosessuale più intensa e significativa resta imperfetta rispetto all’ideale della coppia coniugale. In tale contesto l’unione sessuale, non potendo esprimere una comunione sponsale, totale e reciproca, si presenta in modo insuperabile come linguaggio ambiguo.

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