domenica 24 febbraio 2013
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Cinque minuti. Sono pochi, cinque minuti, ma bastano per lasciare il segno. I 100-150mila che guardavano la finestra di Benedetto XVI non li dimenticheranno, quei cinque minuti all’Angelus, l’ultimo del suo pontificato. Ricordando il Vangelo di ieri dedicato alla Trasfigurazione – un Vangelo che sembrava scelto per lui -, ha detto che Dio chiama anche lui a “salire sul monte, a dedicarsi ancora di più alla preghiera e alla meditazione, ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi. Se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirlo con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”. Un’altra lezione di realismo e di fede, un altro omaggio all’Amato e alla sua Amata, la Chiesa. Un’altra conferma della straordinaria capacità del “professor Ratzinger” di spiegare ai semplici le cose ultime. Ultime perché arrivano al fondo dell’esistenza, dove non servono tante parole, dove la cosa più preziosa è la testimonianza. E a tutta quella gente arrivata da chissà dove per dirgli il suo affetto, a quelle facce col naso all’insù, ai molti visi rigati da lacrime di commozione, Benedetto ha testimoniato che l’affetto più grande è spendere la vita per l’Amata, servire la Chiesa come la cosa più cara che si ha. Non tenere la vita per sé, ma offrirla sapendo che solo così la si può veramente conquistare. Ci ha detto che la Chiesa ha bisogno di testimoni, oggi più che mai, e che il modo migliore per ringraziarlo è metterci sulla strada che lui sta percorrendo. Salire sul monte, senza voltarsi indietro. Dedicandosi ancora di più alla preghiera e alla meditazione, sapendo che questo non significa abbandonare l’Amata, ma amarla con tutte le forze che sono rimaste a disposizione.​
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