martedì 19 maggio 2020
Giovanni Paolo II pellegrino tra chi aveva perso tutto nel borgo devastato dal sisma del 1980
Quando a Balvano fece suo il dolore dei terremotati

Ansa. Foto d'archivio

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È questo tempo della pandemia, con tanti aspetti di vita ancora in sospeso a riportare alla mente, nel giorno del centenario della nascita, un gesto nascosto, rimasto appartato per tutto il tempo del lungo pontificato di Papa Wojtyla. Avvenne a Balvano, poche case sparse intorno a una piazza, Lucania contadina e dietro le quinte: perfino di quel terremoto dell’Ottanta che sconvolse, in una terribile scossa di un minuto e mezzo, Campania e Basilicata. Poco meno di tremila vittime, paesi distrutti e rasi al suolo. Non Balvano, distante anche dall’area del cratere nell’alta Irpinia. Case intatte, i segni del tempo, sulle costruzioni di pietra viva, più forti di quelli di un sisma che sembrava essere passato al largo, senza accorgersi forse di un grumo di paese in cui si è dissolto nel tempo anche il ricordo della più grave sciagura ferroviaria mai accaduta in Italia: oltre 600 vittime, il 3 marzo del 1944, sul treno 8017, nella galleria “Delle Armi”, sulla linea per Ricigliano. Quando arrivò in paese, il Papa delle grandi folle, eletto meno di due anni prima, si trovò quasi senza nessuno intorno. Irreale il paese che assurdamente, per chi veniva da altri centri colpiti, quasi allontanava la realtà del disastro. Irreale quel vuoto intorno al Papa che volle compiere a piedi gli ultimi tornanti che portavano alla piazza. Da un lato e l’altro della strada, la voce dolente delle anziane donne del paese, avvolte negli scialli neri, intonavano nenie e lamenti come un requiem collettivo davanti a una tragedia che, per andare a colpire, aveva dovuto violare e quasi snidare un’antica e appartata quiete. Giovanni Paolo II proseguiva nei suoi passi in direzione della piazza.

Continuava a non avere nessuno al fianco; né le donne sull’uscio di casa, per una forma di atavica «soggezione» si facevano avanti. Fu lui allora ad avvicinarsi e a varcare la soglia di un’abitazione che, come tutte le altre del paese, sembrava non aver subito nessun danno. Uscito dalla casa, Giovanni Paolo II riprese poi il cammino. La piazza era più in là e non si scorgeva ancora. Ai due lati della strada, al suo passaggio, s’infittiva soltanto il dolore: passava il Papa, ma l’angoscia impediva a molti anche di sollevare appena il capo. Il dolore impietriva ogni gesto. Erano spaesati anche gli uomini del seguito, il solo piccolo assembramento che poteva farsi, in quel momento, intorno a Giovanni Paolo II, pellegrino nel cratere del terremoto, pochi giorni dopo quel drammatico 23 novembre dell’Ottanta. L’elicottero lo aveva condotto a Balvano da Potenza dove aveva portato conforto ai feriti. A Balvano fu difficile trovare un posto per l’atterraggio. Mancavano spazi, che il piccolo centro aveva ritagliato a fatica, al fondovalle dai monti intorno, per un insediamento già in partenza precario e disagiato. La piazza stessa, che interrompeva filiere di case addossate come per proteggersi l’una con l’altra, sembrava fuori luogo; un respiro troppo ampio per quelle distanze strozzate. A pochi passi era anche la chiesa.

Anch’essa, come gli altri edifici del paese, tutta in piedi, il frontale intatto, solo i colori smorzati da nuvole di polvere. Da un lato, nascosto alla piazza, il tetto del campanile crollato. Era il lato della fila dei banchi delle ragazze, che accompagnavano i canti della Messa serale delle sei. La tragedia di Balvano, prese di mira quella fila, seminando morte tra chi, più di ogni altro, in quella terra aveva gli occhi e il cuore rivolti al futuro. Il dolore aveva il segno, tragico e riconoscibile, di un totale spaesamento. La tonaca impolverata del parroco che gli andò incontro, lasciò una grande macchia di grigio sulle vesti di Giovanni Paolo II. Nella scuola accanto alla Chiesa, in tre lunghe file da dieci, furono deposti i corpi delle vittime. Il Papa vide il volto di Marinella, 12 anni, dolce e senza un graffio, che pareva letteralmente rapita dalla morte: una trave le aveva perforato la nuca. Un banco di quella stessa scuola, diventò, appena Giovani Paolo II rientrò in piazza dall’angoscia di quella visita, il pulpito improvvisato per un’alta e toccante lezione sul dolore. Nessuno sapeva perché quel banco fosse lì; chissà poteva servire. Il Papa lo vide, si accostò, e da solo, scostando la veste, vi salì sopra, tra la preoccupazione di chi era intorno. Un gesto risoluto e vigoroso, come una sferzata di vita e di energia in un paese attonito e smarrito; ma più ancora il segno stesso di un pontificato che andava a raccogliere, anzi a scovare, brandelli di speranza tra gli angoli sperduti del mondo.

Quel banco diventò d’un tratto altare e cattedra. E consegnò alla più sparuta delle folle, un’immagine forte e suggestiva. Se ritorna in mente ora è perché quel vuoto di Balvano non è poi altra cosa del vuoto e del silenzio che un altro Papa, Francesco, quarant’anni dopo e nel pieno di un’altra tragedia, ha sperimentato nella più celebre tra le piazze del mondo, San Pietro, diventata cattedra e altare di un altro tempo. Ma della stessa speranza e dello stesso coraggio.

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