lunedì 20 marzo 2017
Siamo una Chiesa che si sente costantemente accompagnata dal magistero del Santo Padre Francesco e incoraggiata dalla sua testimonianza apostolica.
Agenzia Romano Siciliani

Agenzia Romano Siciliani

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Cari e venerati Confratelli,

il nostro convenire è espressione delle Chiese che sono in Italia, della loro vivacità e del loro impegno, che prendono volto già nelle comunità parrocchiali: insieme ai loro sacerdoti, continuano a essere generosamente accanto alla gente, ne ascoltano la vita e ne condividono gioie e dolori, speranze e angosce. È una prossimità radicata nella storia del nostro Paese e si manifesta in una presenza capillare che innerva la nostra terra, prendendo il volto della storia, della cultura, di città, paesi e borghi. Ne è segno la condivisione della voglia di riscatto e di cambiamento – più grande di ogni intimidazione – che anima la società: la nostra solidarietà in queste ore va, in particolare, a Mons. Francesco Oliva, Vescovo di Locri, a quanti con lui stanno facendo memoria delle vittime innocenti della mafia, e a tutta la cara popolazione calabra. Su un altro versante, è segno della prossimità della Chiesa anche l’attenzione concreta alle ampie zone del Centro Italia colpite da un sisma che ha cambiato profondamente il volto dei territori, ma non ha piegato popolazioni dignitose e fiere, capaci di sacrificio ed esempio per tutti. Accompagniamo con fiducia la realizzazione dei primi interventi dello Stato e il sollievo delle famiglie che finalmente hanno una casa. Grazie all’esempio di queste comunità, all’impegno instancabile di istituzioni e volontari, può crescere in tutti l’orgoglio e la gioia di appartenere al nostro popolo e alla nostra storia.

1.La Chiesa in Italia

Siamo una Chiesa che si sente costantemente accompagnata dal magistero del Santo Padre Francesco e incoraggiata dalla sua testimonianza apostolica. Gli siamo grati anche per la particolare attenzione che manifesta attraverso le sue visite pastorali: sabato prossimo sarà a Milano, il 2 aprile a Carpi, il 27 maggio a Genova.

Personalmente, lo ringrazio pure per la fiducia che ha mostrato con la proroga alla mia presidenza, in modo da giungere alla prossima Assemblea Generale, che sarà chiamata a eleggere la terna relativa alla nomina del nuovo Presidente. Prepariamoci con una più intensa preghiera allo Spirito Santo, perché illumini i nostri cuori: presiedere la nostra Conferenza è certamente un compito, ma è innanzitutto una grazia. Richiede l’umiltà che non si compiace, ma serve e rende capaci di ascoltare veramente i Confratelli, nel segno della stima sincera e della reciproca fiducia, per tentare delle sintesi limpide e alte. Per questo chi presiede non ha bisogno di avere un proprio programma, ma – in spirito di cordiale obbedienza – accoglie prontamente le indicazioni del Papa, Primate d’Italia, e, insieme ai Confratelli e al vissuto delle Comunità, le declina al meglio per le nostre Chiese. Sapendo anche che, quanto più la Comunità cristiana è viva e vitale, tanto più è fermento benefico per la società intera. All’umiltà e all’obbedienza si accompagna la discrezione. Essa non cerca la ribalta, anche se l’accetta quando s’impone per dovere, e non esibisce quanto il ruolo richiede in termini di conoscenze e di relazioni. L’inserimento nella Presidenza, poi, è un aiuto formidabile, insieme alla Segreteria generale e agli Uffici della CEI: nel suo complesso, questa struttura provvidenziale incoraggia e sostiene.

Al Papa rinnoviamo, quindi, la nostra disponibilità e il nostro affetto. Come già la scorsa settimana in occasione del quarto anniversario della sua elezione, come Pastori delle nostre Diocesi, gli rinnoviamo la nostra sincera gratitudine: per aver posto al centro del suo pontificato quella Misericordia che a noi viene incontro nel volto di Gesù Cristo; per il suo esempio, fatto di semplicità e vicinanza; per le sue instancabili esortazioni a non lasciarsi trascinare in una cultura dell’indifferenza, ma a vivere una prossimità animata da fiducia e speranza; per la sua incessante richiesta di preghiera, strumento di benedizione e di beneficio spirituale per tutti.

Siamo ormai giunti a metà del cammino quaresimale. Secondo le esortazioni del Santo Padre, nelle nostre Diocesi intendiamo viverlo come tempo forte per “non accontentarsi di una vita mediocre”, ma per “tornare a Dio ‘con tutto il cuore ’ (Gl 2,12)”, e “crescere nell’amicizia con il Signore”. Vogliamo arrivare alla Pasqua e lasciarci afferrare dalla mano stigmatizzata del Signore risorto, per vivere una fedeltà radicale e quindi missionaria. Questa è la strada per riscoprire la giusta relazione con le persone, fino a “cogliere l’altro come un dono”. È una fraternità concreta, che si manifesta anche con la partecipazione alle Campagne di Quaresima che molti organismi ecclesiali – a partire dai nostri Centri Missionari diocesani – promuovono per “far crescere la cultura dell’incontro nell’unica famiglia umana” (Francesco, Messaggio per la Quaresima 2017).

Sullo sfondo della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi – che Papa Francesco ha convocato per il mese di ottobre 2018 sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” – e degli Orientamenti pastorali del decennio, nel Consiglio Permanente di gennaio abbiamo messo a fuoco il tema principale dell’Assemblea Generale di maggio. Per valorizzare un percorso comune, intendiamo affrontare la questione educativa e l’azione pastorale in riferimento proprio all’universo giovanile. Nei lavori di questi giorni avremo modo di confrontarci sulle modalità con cui proporre tale riflessione all’Assemblea, attenti nel contempo a favorire il coinvolgimento di tutte le componenti ecclesiali in vista dell’appuntamento sinodale.

2.Lavoro e famiglia

Nel Paese si registrano segnali positivi centrali e periferici, e questo genera fiducia. Ma l’affanno della gente permane: è l’affanno per mantenere la propria famiglia ogni giorno, poiché le esigenze primarie non ammettono rimandi a tempi migliori. La prima e assoluta urgenza resta ancora il lavoro: sono ormai lunghi anni che il problema taglia la carne viva di persone – adulti e giovani – e di famiglie. La vita della gente urla questa sofferenza insopportabile: deve avere la sicurezza nei fatti che questo grido è ascoltato e preso in seria e diuturna considerazione. Sarebbe nefasto che nei luoghi della responsabilità la voce dei disoccupati e dei poveri arrivasse flebile e lontana. Semplificare le realtà difficili e complesse non è giusto: questo approccio genera populismo facile e superficiale, spesso urlato, a volte paludato, comunque ingannatore e inconcludente, e seriamente pericoloso! Altrettanto lo sono anche le scorciatoie a cui sempre più italiani ricorrono nell’illusione di risolvere crisi e problemi economici: si pensi ai 260 milioni di euro che ogni giorno in Italia si buttano nel gioco d’azzardo, distruggendo capitali e, più ancora, persone e relazioni.

Come sempre noi Pastori abbiamo ricordato, il primo e efficace ammortizzatore sociale è stata ed è la famiglia, nella quale i risparmi ancora rimasti e le pensioni dei nonni continuano ad essere l’ancora per tutti – figli e nipoti –; dove, soprattutto, ciascuno può rigenerare le proprie energie spirituali e morali per non arrendersi e lottare. Nonostante tutto, la gente resta generosa, attenta ai più bisognosi, mostrando un’anima nobile che nessuna ombra può oscurare. Il popolo vuole vedere il mondo politico piegato su questo prioritario dramma, mentre invece lo vede continuamente distratto su altri fronti, nonché chiuso in una litigiosità dove non entra per nulla il bene del Paese.

Con questo, non rinunciamo a riconoscere nella politica una forma alta di carità, cioè di servizio al popolo, attenta ad affrontare questioni quali il lavoro, la famiglia, i giovani, l’inverno demografico. C’è bisogno di politica autentica, di pace istituzionale, ed è qualunquista ghigliottinare lo Stato.

3. Giovani, lavoro, famiglia

Nel recente Convegno delle Chiese del Sud, è emerso che nel nostro splendido Meridione la disoccupazione giovanile è arrivata al 57%, mentre la media italiana è del 40%: ogni anno emigrano dal nostro Paese circa trentamila giovani in cerca di fortuna! Se si considera che per portare un figlio da zero a 18 anni sono necessari mediamente 171 mila euro, si comprende quale capitale si impieghi – oltre le energie spirituali, morali e sociali – per preparare giovani che porteranno la loro formazione e competenza fuori dall’Italia. Altro fenomeno che sembra essere sconosciuto, riguarda coloro che – non avendo un impegno di studio né un’occupazione – si rinchiudono in casa creandosi un mondo virtuale: in Italia si stima che siano almeno 6.000. Eppure, il 92% dei giovani dichiara il desiderio di farsi una propria famiglia e di avere due o più figli: è uno straordinario dato di fiducia, reso purtroppo vano dalla mancanza di lavoro stabile. Senza lavoro non c’è dignità personale, non c’è sicurezza sociale, non c’è possibilità di fare famiglia, non c’è futuro: il cammino verso la prossima Settimana Sociale dei Cattolici in Italia a Cagliari – ne parleremo in questi giorni – intende evidenziare questo stato di cose e, nel contempo, contribuire in maniera propositiva al loro superamento.

Altri Paesi da sempre vivono quella che potremmo chiamare la cultura del cambio di lavoro: sicuramente ha dei vantaggi, specialmente in tempi di forte crisi. Ma questa mentalità non sembra appartenere alla nostra cultura, che – a sua volta – contiene altri vantaggi. La preparazione seria, la capacità di relazione, il senso di squadra, lo spirito di adattamento… ed altro ancora, sono ingredienti qualificanti. D’altra parte sappiamo che l’affezione al proprio lavoro e il senso di appartenenza a un ambiente, sono valori importanti per i lavoratori e per le aziende: richiedono una certa stabilità.

Legata alla questione del lavoro, sta crescendo la preoccupazione per la continua decrescita demografica: nel 2015 le nascite erano 486.000, nel 2016 c’è stato il nuovo record negativo di 474.000 (- 2,4%), tenendo conto anche dei bambini nati da famiglie di immigrati, mentre l’età media risulta crescere in maniera sensibile. Esiste una incisiva politica che incoraggi e sostenga la natalità? Sempre più siamo convinti che – oltre al lavoro – sia urgente incidere su una fiscalità più umana, e chiediamo di giungere al cosiddetto “fattore famiglia” che le Associazioni – a partire dal Forum delle Famiglie – propongono da anni. Un dato interessante riguarda le famiglie cosiddette numerose, cioè con quattro figli e oltre: in Italia sono 150.000, mentre quelle con almeno tre figli sono circa un milione. La comune testimonianza è che i figli rigenerano i genitori!

La bellezza e la necessità della famiglia, fondata sul matrimonio e aperta alla vita, non verranno mai meno, anche se un certo pensiero unico continua a denigrare l’istituto familiare e a promuovere altri tipi di unione, che non sono paragonabili in ragione delle peculiarità specifiche della famiglia, a partire dalla valenza educativa per i figli e dall’importanza vitale che la famiglia costituisce per il tessuto sociale. Veramente non si comprende, al di fuori di una visione ideologica, la costante e crescente azione per screditarla e presentarla come un modello superato o fra altri, tutti equivalenti.

4.Bambini e famiglia

A questo riguardo, non possiamo non dire una parola – sempre rispettosa, ma chiara e convinta – circa il diritto dei figli ad essere allevati da papà e mamma, nella differenza dei generi che, come l’esperienza universale testimonia, completa l’identità fisica e psichica del bambino. Diversamente, si nega ai minori un diritto umano basilare, garantito dalle Carte internazionali e riconosciuto da sempre nella storia umana. Tale diritto non può essere schiacciato dagli adulti, neppure in nome dei propri desideri. Essere genitore è una cosa buona e naturale, ma non a qualunque condizione e a qualunque costo.

Una violenza discriminatoria viene esercitata anche verso le donne con la pratica della maternità surrogata, comunemente chiamata “utero in affitto”. In questo caso, avviene una duplice ingiustizia: innanzitutto è violata la Dichiarazione dei diritti del fanciullo (1959), che recita: “Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre”. Inoltre, sono negati i diritti delle madri surrogate, che diventano madri nascoste, anzi inesistenti, dopo essersi sottoposte – spinte per lo più dalla povertà – ad una nuova forma di colonialismo capitalistico: si commissiona un bambino, potendosi servire anche di elenchi – si fa fatica perfino a dirlo – di “cataloghi” che indicano paesi, categorie di donne, opzioni e garanzie di riuscita del “prodotto” che – se non corrisponde – viene scartato. È questa la civiltà, è questo il progresso che si desidera raggiungere?

Spesso si sente dire che certe soluzioni sono auspicabili in rapporto alla triste realtà di tanti bambini senza famiglia in attesa di adozione. L’Italia è il secondo paese per numero di adozioni, dietro solamente agli Stati Uniti; ogni anno 10.000 famiglie chiedono di adottare un minore. Purtroppo, il tempo medio per l’adozione è di tre anni e tre mesi, con punte di cinque anni e mezzo! Bisogna prendere atto che le famiglie, che chiedono e attendono l’adozione in Italia sono una moltitudine, mentre l’inefficienza del sistema causa percorsi estremamente lunghi e difficoltosi, tali da mettere a dura prova quello slancio solidale dei genitori che è un altro segno dell’anima del nostro popolo.

5. Bambini e educazione

Nell’orizzonte dei bambini – tanto più nel percorso pastorale del decennio sulla sfida educativa – non possiamo non richiamare l’attenzione di tutti – genitori e istituzioni – sulle ripetute parole del Santo Padre, che rivelano una preoccupazione grave. Non di rado accade, in alcuni Paesi europei, che, con motivazioni condivisibili, si trasmettano visioni e categorie che riguardano la cultura del gender, e si banalizza la sessualità umana ridotta ad un vestito da cambiare a piacimento: “Esiste una ecologia dell’uomo perché anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere” (Papa Francesco, Laudato sì, 155). “Mi domando – afferma ancora il Papa – se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Rischiamo di fare un passo indietro, la rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione” (Papa Francesco, Udienza generale, 15.4.2015). Il Papa denuncia quello che chiama “indottrinamento della teoria del gender”, per cui – dice – che “fare l’insegnamento nelle scuole su questa linea per cambiare la mentalità” è una inaccettabile “colonizzazione ideologica” (Conferenza stampa al ritorno dal viaggio in Georgia e Azerbaijan, 2.10.2016). Nella prospettiva tracciata dal progetto “Immìschiati” promosso dal Forum delle associazioni familiari, docenti e genitori non possono stare a guardare o limitarsi alla lamentela. È dunque necessario che gli adulti siano molto vigili; in particolare, i genitori, mentre si danno disponibili per gli Organi di partecipazione previsti dalla legge, si devono coinvolgere insieme agli altri genitori per il bene della scuola in ogni suo aspetto, sapendo che il Progetto Formativo annuale deve avere sempre il consenso informato della famiglia. Nessuna iniziativa, come nessun testo che promuova concezioni contrarie alle convinzioni dei genitori, deve condizionare – in modo diretto o indiretto – lo sviluppo affettivo armonico e la sessualità dei minori che, in quanto tali, non possono difendersi. La Convenzione Europea (1950), del resto, sancisce il diritto nativo e inviolabile dei genitori all’educazione dei figli.

6.Vita e autodeterminazione

Il nostro popolo, nella sua sapienza fatta di vissuto e di buon senso, è preso dallo smarrimento e da un senso di impotenza di fronte ad una cultura che, da un lato, inneggia alla vita e, dall’altro, la disprezza, la trascura e ne favorisce la soppressione: basta pensare alle forme vecchie e nuove di schiavitù, al commercio di organi, alle molte forme di tratta e di sfruttamento. Come abbiamo detto molte volte, siamo in presenza di una cultura che incide volutamente sul modo di pensare, esasperando alcuni aspetti come la libertà e l’individualità di ciascuna persona.

È curioso come la Chiesa, sotto i regimi totalitari, abbia dovuto affermare a prezzo di persecuzioni e di martiri che ogni persona è unica e irripetibile, nativamente dotata di libertà e di autodeterminazione; che l’uomo non è il prodotto della collettività; che la persona precede la società. In altre epoche, invece, la Chiesa ha dovuto ricordare – sempre a caro prezzo – che la persona è sì se stessa, ma non è un’isola autonoma dal resto, un mondo chiuso e sciolto da legami e responsabilità. Che nella pluralità il singolo non scompare, ma si raggiunge; che le regole e i legami non sono i nemici della libertà, ma – al contrario – sono le sue condizioni. Se il collettivismo rende l’uomo ostaggio della società e dello Stato, l’individualismo libertario lo rende ostaggio di se stesso, delle sue pulsioni e dei suoi sentimenti. In un modo o nell’altro, l’uomo resta solo.

Oggi, sembra che la Chiesa debba tornare a ricordare e testimoniare che la persona è sì individuo unico, ma non sciolto dagli altri; è in relazione con il mondo, in primo luogo con i suoi simili. Credo che sia necessario far emergere e raccontare le implicazioni dell’essere relazione in quanto persone: la relazione – e questo ci distingue da ogni altro essere sulla terra – si manifesta anche nell’avere tutti bisogno degli altri. Per questa ragione nulla della vita individuale è esclusivamente privato: momenti di gioia, di dolore, speranze e delusioni, lavoro, farsi una famiglia e avere dei figli… Nulla riguarda solamente l’individuo, poiché ognuno è un bene prezioso non solo per sé ma per tutti. La fragilità stessa è un dono, poiché interpella l’amore operoso degli altri, mette alla prova la comunità e la fa crescere. Questa visione dell’uomo, che risplende in Gesù Cristo ma che è scritta anche nell’esperienza quotidiana, chiede che “gli altri” – sia i familiari e gli amici e sia la società nel suo complesso – si facciano vicini, ognuno a proprio modo, nei diversi momenti della vita, poiché – come dicevo – ognuno è un bene per tutti e nessuno deve essere e sentirsi solo. Tutto questo ha, certamente, anche dei costi in termini di risorse umane ed economiche, per cui – almeno apparentemente – è meno impegnativo per uno Stato che ognuno sia individuo affidato a se stesso.

La legge sul fine vita, di cui è in atto l’iter parlamentare, è lontana da un’impostazione personalistica; è, piuttosto, radicalmente individualistica, adatta a un individuo che si interpreta a prescindere dalle relazioni, padrone assoluto di una vita che non si è dato. In realtà, la vita è un bene originario: se non fosse indisponibile tutti saremmo esposti all’arbitrio di chi volesse farsene padrone. Questa visione antropologica, oltre ad essere corrispondente all’esperienza, ha ispirato leggi, costituzioni e carte internazionali, ha reso le società più vivibili, giuste e solidali. È acquisito che l’accanimento terapeutico – di cui non si parla nel testo – è una situazione precisa da escludere, ma è evidente che la categoria di “terapie proporzionate o sproporzionate” si presta alla più ampia discrezionalità soggettiva, distinguendo tra intervento terapeutico e sostegno alle funzioni vitali. Si rimane sconcertati anche vedendo il medico ridotto a un funzionario notarile, che prende atto ed esegue, prescindendo dal suo giudizio in scienza e coscienza; così pure, sul versante del paziente, suscita forti perplessità il valore praticamente definitivo delle dichiarazioni, senza tener conto delle età della vita, della situazione, del momento di chi le redige: l’esperienza insegna che questi sono elementi che incidono non poco sul giudizio. La morte non deve essere dilazionata tramite l’accanimento, ma neppure anticipata con l’eutanasia: il malato deve essere accompagnato con le cure, la costante vicinanza e l’amore. Ne è parte integrante la qualità delle relazioni tra paziente, medico e familiari.

7.I migranti, l’Italia, l’Europa

Continua l’attenzione e l’impegno solidale del nostro Paese verso i flussi di tanta povera gente che fugge da guerra, fame, persecuzione religiosa ed etnica, alla ricerca di un futuro migliore. Sembrano essere in atto tentativi di cooperazione concreta che mirano a incentivare, in modo proporzionato e garantito, lo sviluppo e la pace in Paesi che si trovano da anni in gravi difficoltà.Su questo sfondo, si colloca anche l’azione della nostra Chiesa. Essa si articola su più livelli.

Innanzitutto, con un’azione di sostegno direttamente nei Paesi di provenienza: per fermarci agli ultimi 4 anni, sono 2.727 i progetti di formazione e sviluppo sociale sostenuti con fondi 8xmille destinati alla Chiesa cattolica, con uno stanziamento pari a 370 milioni e 400 mila euro. In quest’ottica, va letta anche l’iniziativa straordinaria della CEI Liberi di partire, liberi di restare: punta a costruire un ponte tra le nostre Chiese e, in particolare, quelle dell’Africa e ha per beneficiari principali i migranti minorenni; il progetto prevede un impegno complessivo di 30 milioni di euro, tratti anche in questo caso dai fondi 8xmille.

Un secondo livello di intervento riguarda il coinvolgimento diretto anche della CEI nella realizzazione di corridoi umanitari per l’arrivo in Italia di profughi, fuggiti da Paesi in conflitto: attraverso le diocesi si accompagnerà un adeguato processo di integrazione ed inclusione nella società italiana.

Infine, il terzo livello, vede la presenza operosa della Chiesa, in collaborazione con le Autorità locali competenti. Parrocchie, Istituti religiosi, associazioni e gruppi, Caritas diocesane e Uffici Migrantes: ogni risorsa è in campo nell’ottica dell’accoglienza sempre necessaria, ma anche nell’intento di integrare coloro che mostrano nei fatti di volerlo, di partecipare attivamente ai percorsi previsti, di imparare la lingua, di conoscere il nostro Paese e la sua cultura, di cominciare ad amarlo come il proprio, operando per il bene comune.

A sua volta, l’Unione Europea deve uscire dai propri ambienti chiusi, e arrivare idealmente fino alle nostre coste; deve farsi più responsabile e meno giudicante.

A giorni sarà celebrato qui a Roma il 60° anniversario dell’inizio dell’Unione Europea. Come Pastori di questo Paese che fu uno dei fondatori, siamo lieti e preghiamo perché il cammino intrapreso non solo prosegua e si allarghi, ma in primo luogo migliori. A fronte della Brexit e di altri movimenti populisti, noi crediamo che l’Unione sia un percorso necessario per il bene del Continente. Pertanto – come ho avuto modo di dire in diverse sedi anche nella mia veste di Presidente del CCEE – c’è ancora più bisogno d’Europa, ma ad una condizione: che l’Europa non diventi altro rispetto a se stessa, alle sue origini giudaico-cristiane, alla sua storia, alla sua identità continentale, alla sua pluralità di tradizioni e culture, ai suoi valori, alla sua missione. L’Unione non è fatta dai Capi di Stato, ma dai popoli degli Stati membri, ed è ai popoli che bisogna pensare con stima e rispetto senza imporsi. Accelerare i processi non può significare l’omologazione di culture e tradizioni, e neppure la ricerca di compromessi al ribasso, né aggirare le dichiarazioni e le leggi comuni. E neppure limitare le sovranità nazionali. I Capi degli Stati e dei Governi sanno che essi sono delegati dei loro popoli e che nelle decisioni comuni devono tener conto delle loro Nazioni.

La Chiesa è presente in questo cammino con le sue comunità e i suoi Pastori, in sinergia con le Chiese e le comunità cristiane del Continente. A questo riguardo, nei miei recenti incontri a Mosca con il Patriarca Kirill e a Istanbul con il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, abbiamo ringraziato il Signore per la ricchezza delle nostre tradizioni e confermato l’impegno comune per il bene dell’intero Continente, e quindi anche dell’Unione Europea. A fronte del secolarismo che si insinua ovunque, abbiamo condiviso la convinzione che i cristiani siano interpellati ad annunciare nuovamente il Signore Gesù, Redentore del mondo, epifania del Padre, splendente icona dell’uomo. Essendo il Cristianesimo la religione del Logos fatto carne, crediamo nel valore della ragione umana, strumento di dialogo tra le culture, e accettiamo la fatica di pensare la fede per comunicare con tutti, e partecipare alla costruzione di un Continente che promuova la vita in ogni sua fase e la famiglia come la cellula portante; un Continente che non abbia timore della religione, e riconosca la libertà religiosa come il fondamento più alto e la garanzia più sicura della dignità di ogni uomo.

Cari Confratelli, come sempre ci attende un impegnativo lavoro: non solo in questi giorni di dialogo cordiale a servizio delle nostre Chiese, ma anche nel quotidiano delle nostre comunità, insieme ai nostri amati sacerdoti e diaconi, con tutto il santo popolo di Dio. È un tempo di grandi sfide ma anche di grandi opportunità, quello che la Provvidenza divina ci pone innanzi. La necessità di non perdere nessuna occasione – e sono sconfinate – per incontrare, ascoltare, testimoniare, dire le parole della fede e quelle della ragione, perché il cuore di tutti – qualunque sia la loro posizione – ritrovi calore, compagnia, luce e fiducia per vivere i giorni e le stagioni.

Tutto affidiamo alla Santa Vergine, Madre della Chiesa, e al suo castissimo Sposo, San Giuseppe, che celebriamo con nuovo affidamento.

Card. Angelo Bagnasco
Arcivescovo di Genova
Presidente della CEI

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