martedì 5 settembre 2017
Parla il presidente della Conferenza episcopale colombiana. «Il Pontefice ci aiuterà a non lasciarci paralizzare dal terrore di vivere insieme. Per il Paese è un momento cruciale»
L'arcivescovo Oscar Urbina Ortega, presidente della Conferenze episcopale colombiana

L'arcivescovo Oscar Urbina Ortega, presidente della Conferenze episcopale colombiana

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Con la mano protesa. Come un bimbo che, divorato dall’ansia di muovere i primi passi, cerca un appiglio sicuro per vincere la paura di cadere nel vuoto. Con la medesima trepidazione, la Colombia del post-conflitto attende papa Francesco che domani atterrerà a Bogotà. Ansiosa di lasciarsi alla spalle il passato di guerra - dopo lo storico accordo tra il governo e la principale guerriglia, le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc), firmato lo scorso 24 novembre -, la nazione fatica, però, a incamminarsi verso il futuro, nel terrore di mettere un "piede in fallo". Tende, dunque, le braccia alla ricerca di aiuto. «Il Santo Padre afferrerà le nostre mani e ci accompagnerà nel compiere il primo, decisivo passo verso la pace», dice monsignor Óscar Urbina Ortega, arcivescovo di Villavicencio, eletto a luglio presidente della Conferenza episcopale colombiana. E aggiunge: «Il Paese ha bisogno di Francesco in questo momento cruciale. Lui lo sa. E, per questo, viene a sostenerci. Affinché non ci lasciamo paralizzare dal terrore di vivere insieme a chi la pensa diversamente».

Perché la Colombia ha bisogno di papa Francesco?
C’è stato - e c’è ancora, da parte di alcuni - il tentativo di "politicizzare" la pace. Di appoggiarla o attaccarla per trarne consensi elettorali. Le parole e i gesti del Pontefice saranno fondamentali per aiutarci a comprendere che "pace" e "riconciliazione" sono realtà ben più profonde. Le quali richiedono un processo di trasformazione interiore. Di disarmo delle coscienze. Altrimenti restano gusci vuoti, slogan.

Che cosa intende?
Il patto, già raggiunto con le Farc e in fase iniziale di costruzione con l’altra guerriglia, l’Ejército de Liberación Nacional (Eln), definisce una strategia per arrivare alla pace. E tale strategia è politica e compete allo Stato. Essa rischia di rimanere, però, un corpo morto, pietrificato, se all’interno non ci sono un cuore palpitante e uno spirito capace di sperare. Far battere quel cuore, aprire l’animo alla speranza, è compito della Chiesa, a partire dal Vangelo, attraverso i propri rituali e le dinamiche pastorali. Dobbiamo, in particolare, accompagnare e sostenere le vittime, affinché le loro ferite, grandi e profonde, possano rimarginarsi. È necessario uno sforzo comune, della Chiesa, dello Stato, delle diverse organizzazioni, laiche e religiose, di tutte le colombiane e i colombiani di buona volontà, per avviare un reale processo di riconciliazione. Il messaggio del Papa sarà, dunque, fondamentale: Francesco è un uomo di comunione, capace di costruire ponti tra le sponde opposte in cui troppo a lungo è rimasta arroccata la Colombia.

Questa nazione e il suo faticoso incamminarsi verso la riconciliazione sono stati molto presenti nel pensiero e nell’azione del Papa. Quanto ha "pesato" Francesco sulla chiusura, tuttora in corso, del più lungo conflitto d’Occidente?
Molto. Il Papa non ama i lunghi discorsi. Dice poche parole ma tutte difficili da ignorare. Francesco ha sostenuto con la preghiera costante il negoziato in corso all’Avana tra il 2012 e il 2016. Lo ha seguito con sguardo attento e profetico. Spendendosi, con coraggio, nei momenti in cui il dialogo sembrava impantanarsi. Quando le liti sulla giustizia post conflitto rischiavano di far saltare la trattativa, proprio in terra cubana, il 20 settembre 2015, esortò le parti dicendo: «Per favore, non possiamo permetterci un altro fallimento in questo cammino di pace e riconciliazione!».

Lei ha parlato prima delle vittime di oltre sessant’anni di guerra. Queste saranno le protagoniste della seconda giornata "colombiana" del Papa che si svolgerà proprio nella sua arcidiocesi, a Villavicencio. Che benvenuto gli darà?
Il tema dell’8 settembre, a Villavicencio, sarà la riconciliazione: con Dio, fra di noi come popolo, e con la natura. Villavicencio è la "porta" che dalla Colombia urbana conduce verso i "Llanos orientales", un’immensa pianura di quasi 300mila chilometri quadrati. Essa include un’ampia porzione di Amazzonia, con la sua magnifica biodiversità. Villavicencio, dunque, è un luogo doppiamente emblematico: per le sofferenze patite nei multipli conflitti che hanno insanguinato la nazione e per la centralità che là assume la questione ambientale. E’, dunque, simbolo di una riconciliazione globale.

Non mi ha detto, però, il suo benvenuto…
E va bene, glielo dico. Anche se mi rovina la sorpresa… Dato che per raggiungere Villavicencio si deve scendere dall’altopiano di Bogotà, comincerò il mio discorso con un versetto di Isaia: "Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annunzia la pace".

Monsignor Ortega è stato intervistato anche da Tv2000. Ecco il video.

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