sabato 18 maggio 2013
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La parrocchia, i movimenti. Certo. E anche le libere associazioni laicali, previste dal diritto canonico. E poi le forme della vita consacrata, che stanno sulla dorsale del paradosso e dell’inquietudine, dell’azzardo e della sapienza evangelica, della quale non si deve scipire il sale, aggiustandosi giudiziosamente sull’indolore conciliazione degli opposti. «Sono venuto per guarire i peccatori». «Sono venuto per dividere i padri e i figli». «Il mondo non può capire, perciò non può amarvi». «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio». Il Papa ha stigmatizzato questo annacquamento della bellezza e della trasparenza della tensione evangelica che deve abitare le forme-di-chiesa, impiegando il folgorante ossimoro della «mondanità spirituale», ricevuto da un coltissimo teologo gesuita e grande maestro di spirito, Henri de Lubac. Papa Francesco, con quella sua soave ruvidezza, con la quale trapana il nostro levigato gergo ecclesiasticamente corretto, non ha esitato a parlare di «clericalismo ipocrita» (che avvolge anche i laici) e di «cristiani da salotto» (che non esclude i consacrati). Questa mondanità spirituale consiste essenzialmente nell’imborghesimento del proprio rispettabile status ecclesiastico, e nella ricerca di aggiustamento mondano delle forme comunitarie, sospinte a modellarsi secondo la logica delle affinità elettive e delle complicità corporative, dei club esclusivi e delle clientele selezionate. Profili che il mondo riconosce come ovvia conformazione alle ragioni dell’interesse di parte e del privilegio di casta. Questa deriva mondana è la più pericolosa, perché mantiene l’aura spirituale di una compiaciuta "distinzione" religiosa. Dissimula lo svuotamento dello spirito evangelico nella vischiosità di rapporti che il mondo giudica corretti e di opere che il mondo giudica utili. La mondanità spirituale può avere un’aria molto distinta e per bene, ma di certo rende indistinta la differenza dello stile evangelico. La conseguenza più grave – la più temibile per il cristianesimo – è nel fatto che questo stile della forma ecclesiale, addomesticato al mondo ed estraneo agli uomini, si chiude proprio per coloro che devono essere irradiati e toccati, liberati e salvati dalla misericordia e dalla tenerezza di Dio. Gesù ha continuamente infranto le barriere visibili e invisibili di questo ripiegamento religioso, puntando sulla disarmata prossimità di Dio nei molti luoghi della perdutezza dell’uomo. Per questo esistono, in primo luogo, le forme-di-chiesa, con la varietà dei ministeri e dei doni dello Spirito che ne modellano l’appartenenza e l’accoglienza, la missione e l’azzardo, nel grembo dell’unica fede condivisa. E mettiamoci pure "la folla", tra queste forme-di-chiesa. I lettori dei Vangeli sanno bene di cosa parliamo. Gesù, i discepoli, la folla, il popolo, la gente. Qui si raccolgono ascoltatori della Parola che non sanno neppure perché sono lì, che non sanno bene che cosa devono aspettarsi. Eppure, attraverso Gesù e i discepoli, vengono irradiati e anticipati veri sacramenti di salvezza, di conversione, di guarigione, di consolazione. Di qui si fanno avanti gli uomini e le donne che chiedono riscatto dagli avvilimenti della loro vita, dalle ferite delle loro creature. Di qui Zaccheo scende dalla pianta, e Bartimeo lancia il suo grido. Di qui si illuminano le forme-miracolo della fede che va diritta al punto: delle quali non finiremo di commuoverci, e dalle quali non finiremo di imparare. "Fare Chiesa" fino a qui. E lungo tutti i tragitti che stanno in mezzo fra il centro della fraternità con il Signore e le periferie della vita. Per questo il Signore viene nel mondo, per questo i discepoli ci vanno. Non posso impedirmi di pensare (ne sento l’eco) alle parole appassionate di Paolo VI – che vide, per noi, il futuro che è adesso, quando parlava dei «cerchi concentrici» in cui la Chiesa si forma, irradiando l’abbraccio crocifisso del Figlio fino alla distanza più impensabile da Dio (Ecclesiam suam). O quando indicava nel ripiegamento clericale e nella tiepidezza missionaria della comunità cristiana – a partire dalla parrocchia – l’ingombro maggiore al rinnovarsi della sorpresa evangelica fra gli uomini della città moderna (Evangelii nuntiandi). L’accidia del seminatore non va messa a carico della sterilità del terreno. Che ci sia bisogno di festeggiare per l’invenzione delle forme-di-chiesa che lo Spirito suscita, è un fatto. Dobbiamo esserne più lieti, più desiderosi, più commossi. Invocare appassionatamente, perché questo avvenga, deponendo la nostalgia delle vecchie abitudini. La Chiesa è una. La sua capacità di generare – e di rigenerarsi – in molte forme di vita, la fa vivere. È necessario essere generosi (viene da "generare"!) con il lavoro dello Spirito. Metterci in movimento per esserne all’altezza, non lucrarne una migliore rendita di posizione. Lo Spirito non è destinato soltanto all’edificazione della comunità con molti doni e ministeri. Lo Spirito è destinato a una creatura che «geme e soffre fino a oggi le doglie del parto». E Paolo aggiunge che essa non è sola, perché noi stessi aspettiamo, gemendo con l’intera creazione e animati dalle «primizie dello Spirito», l’adozione a figli e la redenzione del nostro corpo. Si deve vedere e toccare con mano, questo. Non solo parole alate e prediche di circostanza. Capiamo qual è la complicità con lo Spirito e il senso vero dell’animazione ecclesiale? La Chiesa non è semplicemente la regina-madre dei propri figli, è la levatrice dello Spirito per quelli di tutti gli altri. Che ci sia bisogno di uno slancio di purificazione dall’inerzia autoreferenziale e dalla competizione tutta mondana delle forme-di-chiesa, è sicuro. La nostra mancanza di fede ha prodotto un tasso di nervosismo del rendimento, di angoscia della perdita, di litigiosità permanente, che ci hanno letteralmente stremati. Nella mondanizzazione della fede, l’appartenenza alla Chiesa si frammenta in appartenenze autocelebrative e rassicuranti, che la requisiscono in proprio. Le parole brucianti di Paolo – «Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice "Io sono di Paolo", "Io invece sono di Apollo", "E io di Cefa"» (1Cor 1, 12) – devono letteralmente immergerci in un bagno penitenziale. Esiste un solo fondamento, Gesù Cristo. E ciascuno sia attento anche a "come" costruisce. La regola d’oro è questa. Esiste un solo Signore, e un solo Spirito per molti doni. E il loro sigillo d’oro è «l’utilità comune». Il tema è dunque una nuova prossimità. Prossimità del Signore, nella prossimità del discepolo: fino alle periferie più dimenticate della città-mondo. Non è la dispersione della Chiesa, è la sua felice disseminazione e seminagione, che abbatte i bastioni dell’autoedificazione, fa crollare i muri divisori fra i credenti, edifica luoghi domestici e ospitali della riconciliazione con Dio, e traccia vie nuove per l’uscita dalla nuova idolatria. Custodire il santuario che consacra il passaggio delle generazioni, abitare il flusso delle folle che cercano Dio sulla strada. L’uomo di Dio che ha ereditato il ministero di Pietro saprà illuminarci con il discernimento che ora è indispensabile per questa conversione. Saremo liberati da un peso. E ci sarà da festeggiare.
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