giovedì 10 novembre 2016
L'omelia scritta prima di andare a Roma per il Conclave del 2013. Un estratto del libro «Nei tuoi occhi è la mia parola» (Rizzoli)
Il cardinale Bergoglio in una foto del 6 marzo 2013 (Osservatore Romano)

Il cardinale Bergoglio in una foto del 6 marzo 2013 (Osservatore Romano)

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Pubblichiamo un estratto del volume 'Nei tuoi occhi è la mia parola' (Rizzoli) che raccoglie le omelie e i discorsi pronunciati dall’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio negli anni 1999-2013 quand’era pastore (creato cardinale nel 2001) dell’arcidiocesi argentina. In particolare, il testo che segue è l’omelia preparata per la Messa Crismale del 28 marzo 2013 scritta prima di andare a Roma per partecipare al Conclave che l’avrebbe eletto Papa. E quindi mai pronunciata in Argentina. La riflessione del futuro Pontefice fa riferimento alle Letture del giorno: Isaia 61,1-3.6.8-9; Apocalisse 1,5-8; Luca 4,16-21

Le letture ci parlano degli Unti: il servo di Jahvè di Isaia, Davide e Gesù nostro Signore. Tutti e tre hanno in comune il fatto che l’unzione da loro ricevuta serve per ungere il popolo fedele di Dio di cui sono servitori; la loro unzione è per i poveri, per i prigionieri, per gli oppressi... Un’immagine molto bella di questo «essere per» del santo crisma ci viene dal Salmo133: «È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste» ( Sal 133,2). L’immagine dell’olio che si sparge, che scende sulla barba di Aronne e cala sull’orlo della sua veste sacra è immagine dell’unzione sacerdotale che, attraverso l’unto, giunge fino ai confini dell’universo rappresentati dalla veste.

La veste sacra del sommo sacerdote è ricca di simbolismi; uno di essi è quello dei nomi dei figli di Israele incisi sulle pietre di o- nice che adornavano le spalline dell’efod, da cui proviene la nostra attuale casula: sei sulla pietra della spalla destra e sei su quella della spalla sinistra. I nomi delle dodici tribù d’Israele le erano incisi anche sul pettorale.

Vale a dire: il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo fedele e portando i suoi nomi incisi nel cuore. Mentre ci vestiamo con la nostra umile casula può farci bene sentire sulle spalle e sul cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele, dei nostri santi e dei nostri martiri. A partire dalla bellezza di ciò che è liturgico – che non è mero ornamento e gusto per i paramenti, ma presenza della gloria del nostro Dio rispendente nel suo popolo vivo e consolato –, guardiamone l’azione. L’olio prezioso che unge la barba di Aronne non resta a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge le periferie.

Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati, per chi è triste e solo. L’unzione non serve a profumare noi stessi, e tantomeno a conservarla imbottigliata, perché l’olio diventerebbe rancido... e amaro il cuore. Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia, lo si nota: quando esce dalla Messa, per esempio, con la faccia di chi ha avuto una buona notizia. La nostra gente apprezza il Vangelo predicato con unzione, apprezza quando il Vangelo che predichiamo tocca la sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, le periferie dove il popolo fedele è esposto all’invasione dei predatori assetati della sua fede. La gente ce ne è grata, perché sente che abbiamo pregato sulle sue cose: le sue pene e le sue gioie, i suoi dispiaceri e le sue speranze.

E quando sente che il profumo dell’Unto arriva attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci cose sue che vuole fare arrivare al Signore: «Preghi per me, padre, ho questo problema...». «Mi benedica » e «preghi per me» sono segni del fatto che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché ritorna trasformata in richiesta. Quando siamo in questa connessione e la grazia va e viene tramite noi, siamo sacerdoti, mediatori tra Dio e gli uomini. Ciò che voglio sottolineare è che dobbiamo sempre ravvivare la grazia e intuire in ogni richiesta, a volte inopportuna, a volte meramente materiale (in apparenza), a volte banale (insisto ancora, in apparenza) il desiderio della nostra gente di essere unta con l’olio profumato che sa che noi abbiamo. Intuire e sentire come sentì il Signore l’afflizione speranzosa dell’emorroissa, quando toccò l’orlo del suo mantello.

Quel momento di Gesù, immerso tra la gente che lo preme da tutti i lati, incarna tutta la bellezza di Aronne vestito sacerdotalmente e con l’olio che gli scende sulle vesti. È una bellezza nascosta che risplende soltanto per gli occhi pieni di fede della donna che soffriva perdite di sangue ( Mt 9,20-22). Gli stessi discepoli – futuri sacerdoti – ancora non vedono, non collegano: nella periferia esistenziale scorgono soltanto la superficialità della moltitudine che stringe Gesù da tutte le parti fino a soffocarlo (cfr. Mt8,42).

Il Signore invece sente l’unzione sulla periferia del suo mantello. È là che bisogna andare a sperimentare la nostra unzione, la sua potenza e la sua efficacia redentrice: nelle periferie dove c’è sangue sparso, cecità desiderosa di vedere, prigionieri di tanti padroni cattivi. Non è affatto nelle auto-esperienze o nelle reiterate introspezioni che incontreremo il Signore: nella vita qualche corso di autoaiuto male non fa, ma passare di corso in corso, di metodo in metodo, ci porta a diventare pelagiani, a minimizzare la potenza della grazia che si attiva e cresce nella misura in cui usciamo a darci e a dare il Vangelo agli altri; a dare quel poco di unzione che abbiamo a chi non ha niente di niente.

Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco (non dico «niente » perché la nostra gente ci ruba l’unzione, grazie a Dio), si perde il meglio del nostro popolo, ciò che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, anziché in mediatore si va a poco a poco trasformando in intermediario, in gestore. Conosciamo tutti la differenza: l’intermediario e il gestore «sono già pagati», guadagnano a spese delle parti e così come non «si giocano la pelle e il cuore», allo stesso modo non ricevono nemmeno un ringraziamento di cuore. Viene proprio da qui quell’insoddisfazione di alcuni, che finiscono tristi e trasformati in collezionisti di antichità o di novità, anziché essere pastori che odorano di pecora e pescatori di uomini. È vero che la cosiddetta «crisi di identità sacerdotale» minaccia tutti noi e si innesta su una crisi di civiltà; ma se sappiamo fendere la sua onda riusciremo a prendere il largo nel nome del Signore e a gettare le reti.

È bene che la realtà stessa ci conduca là dove si nota che ciò che siamo per grazia è pura grazia, in quel mare del mondo attuale dove vale soltanto l’unzione (e non la funzione) e si dimostrano feconde unicamente le reti che si gettano nel nome di Colui del quale ci siamo fidati: Gesù. Il Padre rinnovi in noi lo Spirito di santità con cui siamo stati unti: lo rinnovi nel nostro cuore in modo tale che l’unzione arrivi alle periferie, là dove più ne ha bisogno e più lo apprezza il nostro popolo fedele. La nostra gente ci senta discepoli del Signore che indossano i suoi nomi, che non vogliono alcun’altra identità; e possa ricevere attraverso le nostre parole e opere quell’olio di gioia che è venuto a portarle Gesù, l’Unto.

* cardinale arcivescovo di Buenos Aires

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