domenica 14 ottobre 2018
I ricordi e gli aneddoti di Chiara Montini: «Andavamo a trovarlo in Arcivescovado a Milano e lui ci sorprendeva sempre». Le visite in Vaticano e a Castel Gandolfo
Chiara Montini, nipote di Paolo VI

Chiara Montini, nipote di Paolo VI

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Discreta e riservata, per tanti anni ha nascosto il privilegio di «essere nata in una famiglia singolare». Poi, ha cominciato ad aprirsi un po’, rammaricandosi per «aver taciuto troppo» anche con chi le è stato vicino su «esperienze uniche ed insegnamenti meravigliosi». Lei è Chiara Montini, ricercatrice, figlia di Francesco, fratello di Giovanni Battista, nipote di Paolo VI . Giunta a Roma con i familiari, non nasconde la sua gioia.

Allora: ci voleva la canonizzazione per togliere questo grande Pontefice dal cono d’ombra: basterà a farlo conoscere e amare per davvero?

Lo spero. Perché, è vero, per lunghi anni, persino la sua Brescia l’ha relegato in un angolo ben nascosto. Perché, sbagliando, lo ha ritenuto troppo lontano dal popolo della Chiesa e troppo in alto per poterlo avvicinare. Questa, invece, è anche l’occasione per sentirlo tutti vicino, per sfatare logori cliché: il papa freddo, mesto, e per riflettere sulla sua grande fede, sul suo amore alla chiesa e agli uomini.

Lei è nata quando suo zio aveva appena saputo della sua nomina a Milano.
Sì. Da Roma venne a Brescia e mi battezzò. E sette anni dopo mi diede la prima comunione e la cresima. I primi ricordi, quelli più lontani, sbiaditi mi riportano all’eremo di Camaldoli sopra Gussago, vicino a Brescia, dove in agosto, per qualche giornata lo zio da Milano si ricongiungeva con i familiari. Veniva a trovarci anche nella casa di via delle Grazie. Ci riunivamo a pranzo dallo zio Lodovico, l’altro fratello. E quando la mia famiglia si trasferì a Bovezzo, talvolta, di domenica, ci regalava un’ora di compagnia. D’estate la vera meta delle vacanze era invece la Svizzera: Melchtal, non distante dall’abbazia di Engelberg. Lo zio ci veniva con i segretari e padre Bevilacqua. Ricordo la serenità di quel tempo fra passeggiate, visite a chiese e rifugi. A volte percorrendo sentieri ripidi lo zio mi stringeva la mano: mi dava una sicurezza che mi pare di avvertire ancora oggi. Ci raccontava storie di santi, ci parlava del Curato d’Ars…


Nel periodo milanese voi andavate mai da lui?

Sì. E per noi bambine era bello entrare in arcivescovado da un ingresso riservato e sapere che lo zio ci avrebbe sorpreso con doni inattesi. Una volta ci regalò persino un agnellino, un’altra volte due tortore, più tardi una Olivetti Lettera 22 che ancora conservo

L’ultima volta in cui l’ha visto prima dell’elezione?
È stato il 16 giugno 1963, prima di partire per il Conclave. Venne a Bovezzo dove, appunto, viveva la mia famiglia. Non avrei immaginato che non sarebbe più tornato da noi…Diventato Papa - eravamo incollati alla tv - fu come se l’avessimo un po’ perduto. Non ci apparteneva più: anzi dava alla nostra famiglia responsabilità e doveri.

Gli incontri successivi?

Non sono mancati, a cadenza annuale e sempre legati a festività mariane - l’8 dicembre in Vaticano per l’Immacolata e l’8 settembre per la natività di Maria, a Castel Gandolfo… E anche qui tanti ricordi: la Messa mattutina nella cappella privata, le serate nei giardini di Villa Barberini dove era direttore il bresciano Emilio Bonomelli. Ancora lo rivedo inginocchiato davanti all’altare, immobile, in contemplazione. E la sera lo ricordo con mio padre e Jean Guitton, a conversare seduti su poltroncine di vimini all’aperto. Poi su quelle sedie col passare degli anni ci sono finita anch’io con mia sorella, specie dopo il 1971, quando mancò nostro padre e lui, pur preso da responsabilità gravi ci è sempre stato vicino. Per me diventò un punto di riferimento. Finito il liceo chiesi di incontrarlo per farmi consigliare sul percorso da prendere. Non avevo le idee chiare: mi esortò a studiare la storia, anche le nostre radici, le stesse dalle quali lui aveva attinto linfa. Quando mi guardava, con quei suoi occhi limpidi e chiari, sembrava riuscisse a leggermi dentro.

Negli Anni ’70 Paolo VI subì anche contestazioni…

Già. E la nostra famiglia soffriva quanto lui e con lui. Quando studiavo più volte sono rimasta ferita dalle frecciate scoccate dai certi coetanei contro la mia famiglia e l’operato di mio zio. È in quel periodo che ho cominciato a tenere sotto silenzio il mio cognome. Ma più tardi, con il passare degli anni mi sono sentita più forte. E ho reagito. In che senso? Ho capito che non potevo negare e mascherare il privilegio toccatomi. E ho messo a fuoco il dovere di condividere questa eredità con chi non lo ha conosciuto.

In sintesi: cosa insegna a tutti la vita di Montini?

Insegna che si può percorrere un cammino di santità, che non è un traguardo dopo una corsa ad ostacoli sovrumani, ma la cifra delle nostre azioni quotidiane.

In cosa trova sia stato davvero coraggioso suo zio Paolo VI?

Direi nell’accettare il confronto con la modernità, nel tenere un dialogo sempre aperto. Ma con ogni sforzo, con tenacia. Diceva che per compiere il proprio dovere, bisogna fare qualcosa di più del proprio dovere. E lui l’ha sempre fatto.

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