martedì 22 dicembre 2020
Il magistrato ucciso "in odio alla fede" il 21 settembre 1990. Per altri sette Servi di Dio riconosciute le virtù eroiche
Rosario Angelo Livatino

Rosario Angelo Livatino - Fotogramma

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Sarà beato il Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, il magistrato ucciso "in odio alla fede", il 21 settembre 1990. Il Papa ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto che ne riconosce il martirio. Autorizzata anche la promulgazione dei decreti che riconoscono le virtù eroiche dei altri 7 Servi di Dio: Vasco de Quiroga, Bernardino Piccinelli (al secolo: Dino), Antonio Vincenzo González Suárez, Antonio Seghezzi, Bernardo Antonini, Ignazio Stuchlý, Rosa Staltari.

La giovinezza in parrocchia, la Cresima a 35 anni

Nato a Canicattì (Agrigento) il 3 ottobre 1952, Livatino si laureò in Giurisprudenza a Palermo e nel 1978 entrò in magistratura. "Sin dalla giovinezza - si legge nel comunicato della Santa Sede - partecipò all’Azione Cattolica e frequentò la parrocchia, dove teneva conversazioni giuridiche e pastorali, dava il proprio contributo nei corsi di preparazione al matrimonio e interveniva agli incontri organizzati da associazioni cattoliche. Anche da Magistrato continuò a vivere l’esperienza della comunità parrocchiale". E nel 1988 "a 35 anni di età, dopo aver seguito regolarmente il corso di preparazione, volle ricevere il sacramento della Confermazione".

La guerra di mafia, l'agguato e il martirio

"In quegli anni a Canicattì e in tutto il territorio agrigentino la situazione sociale era scossa da una vera e propria 'guerra' di mafia, che vedeva contrapposti i clan emergenti (denominati Stiddari) contro Cosa Nostra, il cui padrino locale era Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso condominio del Servo di Dio".

"Il 21 settembre 1990, il Servo di Dio venne ucciso in un agguato, sulla strada statale 640 che conduce da Canicattì verso Agrigento, mentre viaggiava da solo, in automobile, per recarsi in Tribunale, dove lavorava".

Cosa Nostra lo chiamava "il santocchio"

"La motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire il Servo di Dio - prosegue la nota - fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile del Servo di Dio, lo definiva con spregio santocchio per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori, il Servo di Dio era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante. Dalle testimonianze, anche del mandante dell’omicidio, e dai documenti processuali, emerge che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei. Inizialmente, i mandanti avevano pianificato l’agguato dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente il Magistrato faceva la visita al Santissimo Sacramento".

"La fama di martirio del Servo di Dio perdura sino ad oggi ed è accompagnata da una certa fama di segni".

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