mercoledì 13 aprile 2022
Dall’ambasciata del Paese invaso, dall’arcivescovo Shevchuk e dal nunzio dubbi sulla scelta di far condividere la croce a una ucraina e una russa. Padre Spadaro: è segno profetico di riconciliazione
La Via Crucis del 2020, in pieno lockdown

La Via Crucis del 2020, in pieno lockdown - Ansa

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Mentre il Papa torna a implorare la pace, non va giù agli ucraini la decisione che nella Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo due donne - una ucraina e una russa - portino la croce insieme. Non piace all’ambasciatore presso la Santa Sede Andriy Yurash, in carica dallo scorso dicembre, che lo fa sapere con un tweet. E soprattutto all’arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina, Sviatoslav Shevchuk, che con un duro comunicato definisce «questa idea inopportuna e ambigua che non tiene conto del contesto di aggressione militare russa contro l’Ucraina».

Il caso diventa palese nel primo pomeriggio di ieri, quanto arriva il "cinguettio" del diplomatico. «L’ambasciatore Andriy Yurash - si legge nel suo tweet - capisce e condivide la preoccupazione generale in Ucraina e in molte altre comunità sull’idea di mettere insieme le donne ucraine e russe nel portare la croce durante la Via Crucis di venerdì al Colosseo. Ora stiamo lavorando sulla questione cercando di spiegare le difficoltà della sua realizzazione e le possibili conseguenze».

Parole che farebbero pensare a una qualche forma di pressione, di certo irrituale, persino sulla Santa Sede. Comunque una doccia fredda, alla quale in serata si aggiunge l’inequivocabile comunicato di Shevchuk. «Per i greco-cattolici dell’Ucraina – afferma il capo della comunità di rito bizantino in comunione con Roma –, i testi e i gesti della XIII stazione di questa Via Crucis sono incomprensibili e persino offensivi, soprattutto in attesa del secondo, ancora più sanguinoso attacco delle truppe russe contro le nostre città e villaggi. So anche che i nostri fratelli cattolici del rito latino condividono con noi questi pensieri e preoccupazioni».

Il Primate della Chiesa greco-cattolica dice di aver già trasmesso alle autorità della Santa Sede «le numerose reazioni negative di molti vescovi, sacerdoti, monaci, monache e laici, convinti che i gesti di riconciliazione tra i nostri popoli saranno possibili solo quando la guerra sarà finita e i colpevoli dei crimini contro l’umanità saranno condannati secondo giustizia». E conclude: «Spero che la mia richiesta, la richiesta dei fedeli della nostra Chiesa, la richiesta dei fedeli della Chiesa cattolica latina in Ucraina vengano ascoltate». Parole di una durezza senza precedenti.

Mercoledì mattina è arrivata la posizione del nunzio apostolico a Kiev, monsignor Visvaldas Kulbokas: "Ieri ho trasmesso in Vaticano la reazione dell'Ucraina", dice alla testata in ucraino Credo. Il nunzio aggiunge che è importante guardare alla cosa sul piano che "sotto la croce siamo tutti figli e figlie di Dio: sia l'aggressore che l'aggredito. In questo contesto, ci sono Russia e Ucraina". Ma Kulbokas afferma lui stesso che ora non organizzerebbe la preghiera in questo modo, perché la riconciliazione deve venire dopo: "La riconciliazione deve arrivare quando si ferma l'aggressione. E quando gli ucraini potranno non solo salvarsi la vita, ma anche la libertà. E, naturalmente, sappiamo che la riconciliazione avviene quando l'aggressore ammette la sua colpa e si scusa".

Dalla Santa Sede, fino a tarda serata di martedì nessuna reazione. Ma dopo il tweet dell’ambasciatore, padre Antonio Spadaro, in un post su Facebook, aveva notato: «Occorre comprendere una cosa: Francesco è un pastore non un politico. Agisce secondo lo spirito evangelico, che è di riconciliazione anche contro ogni speranza visibile durante questa guerra di aggressione definita da lui “sacrilega”. Per questo ha pure consacrato insieme #Ucraina e #Russia al Cuore di Maria».

«Le due donne, Albina e Irina, nel venerdì santo porteranno la Croce - sottolineava il direttore di Civiltà Cattolica -. Non diranno una parola. Neanche una richiesta di perdono o cose del genere. Niente. Sono sotto la Croce. avvenire. È un segno profetico mentre le tenebre sono fitte. Ed è una invocazione a Dio perché ci dia la grazia della riconciliazione. La loro presenza insieme - proseguiva il post - è una preghiera scandalosa per chiedere una grazia che solamente Lui può dare. La profezia si incunea nei cuori e nelle ombre della storia».

Il gesuita concludeva: «La domanda per il credente resta: che cosa significa oggi in questa situazione “amare il nemico” (che è il cuore del Vangelo)? E il Papa è pastore universale. Per lui vale quel che ha appena scritto in un tweet: “Il Signore non ci divide in buoni e cattivi, in amici e nemici. Per Lui siamo tutti figli amati”. È terribile e scandaloso. Ma è questo il Vangelo di Cristo».
Il turno di Albina e Irina a portare la Croce sarà in corrispondenza della XIII stazione, quando Gesù muore subito dopo aver gridato «Dio mio, perché mi hai abbandonato. E su questo insiste anche la meditazione scritta a quattro mani. «Dove sei Signore? Dove ti sei nascosto? Vogliamo la nostra vita di prima. Perché tutto questo? Quale colpa abbiamo commesso? Perché ci hai abbandonato? Perché hai abbandonato i nostri popoli? Perché hai spaccato in questo modo le nostre famiglie? Perché non abbiamo più la voglia di sognare e di vivere? Perché le nostre terre sono diventate tenebrose come il Golgota?».
Domande che preludono a una preghiera di riconciliazione. «Signore dove sei? Parla nel silenzio della morte e della divisione ed insegnaci a fare pace, ad essere fratelli e sorelle, a ricostruire ciò che le bombe avrebbero voluto annientare». Preghiera tanto più necessaria alla luce delle prese di posizione di ieri.

DA SAPERE

Irina e Albina, le protagoniste delle XIII stazione

La tredicesima Stazione della Via Crucis di papa Francesco al Colosseo vedrà la presenza di una famiglia russa e di una ucraina. Quelle di una infermiera ucraina, Irina, nel Centro di cure palliative “Insieme nella cura” della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma. E di una studentessa russa, Albina, del Corso di Laurea in Infermieristica del medesimo ateneo. Entrambe sono state intervistate da VaticanNews. Colloqui che testimoniano come tra loro sia nata una amicizia «più forte di qualsiasi logica divisiva che la guerra vorrebbe imporre». «Noi – racconta Albina – ci siamo conosciute durante il tirocinio, lo scorso anno». «Ho sentito – continua – un grande sostegno da parte sua. In questo momento, il popolo di Irina ha bisogno di questo sostegno. Con una delle mie amiche, anche lei ucraina, inviavamo anche prima della guerra aiuti a famiglie bisognose. Ora stiamo organizzando una scuola di infanzia per aiutare famiglie di rifugiati in Ucraina». «La nostra amicizia – sono le parole di Irina – nasce all’interno del reparto di cure palliative. Dal primo momento, il nostro legame è stato molto naturale. È nata questa una amicizia in modo spontanea. E quindi, ogni volta che ci incontravamo, era una emozione. Quando ci siamo incontrate poco dopo l’inizio della guerra, Albina è venuta nel reparto. Io ero di turno. È bastato il nostro sguardo: i nostri occhi si sono riempiti di lacrime. Mi emoziono sempre nel ricordare che Albina ha cominciato a chiedermi scusa. In quel momento era veramente inconsolabile. Non riuscivo a consolarla. Lei si sentiva in colpa e mi chiedeva scusa. Io la rassicuravo che lei non c’entrava niente in tutto questo».

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