lunedì 14 gennaio 2013
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​Il punto di forza è il suo essere una «una Chiesa di popolo». Cioè vicina alla gente, capillarmente diffusa sul territorio, capace di interpretarne i bisogni e perciò – come è evidente in tempi di crisi come il nostro – anche di rispondere in maniera adeguata. In altri termini, quelli dell’originale "sociologhese" di Giuseppe De Rita, si tratta di «una Chiesa di prossimità». Il fondatore del Censis, studioso tra i più apprezzati della società italiana, fotografa così il momento della Chiesa italiana, alla vigilia della nuova visita ad limina.Cominciamo, dunque, dalle caratteristiche più evidenti. Qual è a suo avviso il tratto distintivo della Chiesa nel nostro Paese?Penso che basti andare in giro per l’Italia per rendersene conto. Quella italiana è una Chiesa viva, popolare, il cui motore è ciò che io sono solito chiamare la prossimità. In sostanza la Chiesa si presenta e vive nella vicinanza alla gente, anzi è una delle strutture più prossime che ci siano, mentre tutto il resto (istituzioni, politica e altre istanze sociali) diventano sempre più distanti. E proprio la prossimità ne determina la grandezza.Qual è stato il fattore che ha influito di più per forgiare questa caratteristica?La popolarità è una caratteristica storica. La prossimità è un po’ più recente, emersa a mio avviso nel secondo dopoguerra, quando la comunità ecclesiale ha saputo stare al passo con le trasformazioni sociali e concepirsi non più esclusivamente in veste dottrinaria. Si è compreso cioè che la gente aveva più bisogno di oratorio che di encicliche (senza nulla togliere all’importanza dei documenti del magistero) e che andava in cerca del senso di comunità, più che della bella predica. Tutto questo mentre nella società si rompevano le vecchie comunità e se ne creavano di nuove (si pensi solo all’immigrazione interna dal sud al nord e alla costruzione di quartieri dormitorio). Il bisogno di fare comunità veniva a riempire questi vuoti e la Chiesa italiana ha saputo ben interpretarlo.Sta pensando al Concilio Vaticano II, vero?Certo. Il Concilio ha inciso tantissimo sia attraverso la riforma liturgica, che ha permesso di gustare e comprendere la Parola di Dio e di compiere gesti comunitari come ad esempio lo scambio della pace, sia anche attraverso il cambiamento della mentalità dei sacerdoti. C’è stata una vera e propria evoluzione del clero, che si è sentito sempre meno "ceto superiore" e sempre più a servizio della gente. Poi sono arrivati gli scout, i gruppi di Azione cattolica, i movimenti, e sempre più il senso della comunità ha preso piede.È per questo, dunque, che la Chiesa italiana riesce a essere vicina alla gente anche nella crisi?Sì, perché la prossimità porta a conoscerne profondamente i bisogni. E allora naturalmente la Chiesa si ritrova in pole positon rispetto alle attese dei poveri e in generale dei ceti più svantaggiati dalla crisi. Certo, non è che le parrocchie abbiano i soldi per assicurare la cassa integrazione a tutti. Ma spesso fanno da ufficio di collocamento per chi ha perso il lavoro e da punto di riferimento per gli extracomunitari.Ma non è che così facendo si rischia di ridurre la comunità ecclesiale a una mera agenzia sociale?La sua domanda mi riporta al tempo del convegno sui mali di Roma (1974) e del successivo convegno ecclesiale nazionale, il primo della storia della Chiesa italiana, su "Evangelizzazione e promozione umana" (1976). Ci fu allora un grande dibattito se fosse più importante la prima o la seconda. Io ero tra quelli spingevano per la promozione umana, mentre importanti prelati erano convinti che l’evangelizzazione dovesse sempre e comunque avere il primo posto. Adesso mi rendo conto che la contrapposizione è sbagliata perché la stessa Chiesa che fa da ufficio di collocamento o apre mense e dormitori è la Chiesa che annuncia il Vangelo. Dividersi non serve a nulla. Me lo disse chiaramente anche monsignor Enrico Bartoletti, allora segretario generale della Cei, il quale – quando stavo scrivendo la relazione per "Evangelizzazione e promozione umana", che lui purtroppo non avrebbe visto perché morì prima del convegno – mi fece notare: "La Chiesa non è mai aut aut, ma et et". Una grande lezione anche per l’oggi.Come vede la Chiesa italiana nella prospettiva dell’anno della fede?La mia sensazione è che la Chiesa di prossimità non sempre riesca a innervare di sé l’intermediazione sociale. Il volontariato sì, ma già sul terzo settore c’è qualche difficoltà. Se poi andiamo sul sindacato, sulla politica o sulla cultura ancora di più. Significa che la Chiesa di prossimità può avere il limite di far vivere bene chi fa parte della comunità, ma non di permettere una elaborazione culturale che permetta ad altri soggetti di rappresentarne le istanze lì dove si prendono le decisioni. L’Anno della fede, dunque, può essere l’occasione per colmare questo gap. Evitando il duplice pericolo di ridursi da una parte al solo ruolo di "barellieri della storia" e dall’altro di tornare a un antiquato dottrinarismo.
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