venerdì 3 aprile 2020
A colloquio con il cardinale presidente dei vescovi europei. «L’Europa si vergogna di avere un’anima. Prevalgano i popoli, non le lobby e i mercati». Non sarà una Pasqua triste: «Sarà Pasqua»
Il cardinale Angelo Bagnasco durante la visita al cimitero di Genova

Il cardinale Angelo Bagnasco durante la visita al cimitero di Genova - Arcidiocesi di Genova

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«Il dolore certamente segna i nostri cuori, ma la Pasqua è semplicemente Pasqua, mistero di sofferenza, di speranza e di gioia». Non piace al cardinale Angelo Bagnasco l’idea che ci avviciniamo a una “triste” solennità della Risurrezione. Comincia la Settimana Santa che, come la Quaresima, è segnata dalla pandemia. «Penso che il coronavirus abbia almeno indebolito l'individualismo – spiega l’arcivescovo di Genova –: nessuno può illudersi di salvarsi da solo, di crearsi un rifugio. Non è vero per la salute, non lo sarà per la ricostruzione economica». Denuncia «una visione parziale della sanità pubblica: a forza di tagliare si arriva a questi punti». Sostiene che «il morbo-killer non attenta solo la vita, ma anche l'economia; e oggi lo spettro della povertà è evidente». Ammonisce sul tema degli aiuti che «la gente, già piegata dall'incertezza, non può sentirsi oppressa da una burocrazia legislativa che alimenta se stessa». E, come presidente dei vescovi europei, Bagnasco avverte che «la crisi sanitaria è un banco di prova decisivo per l'Unione Europea». Per questo, aggiunge, la pandemia permetterà di «capire nei fatti se l’Europa è una comunità di popoli, come volevano i padri, oppure un insieme di interessi privati, di lobby economiche e finanziarie, una piazza di mercati dove alcuni sono più uguali di altri».


Eminenza, la pandemia da coronavirus interroga sul silenzio di Dio?Direi che interroga sul silenzio dell'uomo.
Dio ci ha parlato in Gesù e continua a parlarci in lui. Se sembra che Dio tace è perché l'uomo è sordo. Nel mondo occidentale l'uomo ha parlato sempre meno con Dio e sempre più con se stesso, e così si è complicato il dialogo anche con gli altri. Quando uno parla troppo da solo, si convince di aver ragione, di capire tutto, e si allontana dalla realtà. Oggi si fa un gran parlare di tutto, si fanno elenchi di opinioni, a volte senza competenze specifiche, ma mi chiedo se ci sia il desiderio di conoscere la verità o piuttosto il gusto di ascoltarsi. Sembra che quanto più si chiacchiera tanto meno si dialoga, e così nasce confusione e smarrimento. Ma si rafforza anche l’individualismo che è in noi, com’è successo al tempo della torre di Babele. Dio non ha smesso di parlare ai suoi figli, ma i figli, come degli adolescenti, non lo vogliono ascoltare perché lo considerano vecchio, e pretendono di essere loro la verità. Dio però continua a esserci vicino, anche se noi ci siamo allontanati sognando il paradiso in terra. La voce divina a volte è fragorosa, ma più spesso è come una brezza leggera: non si vuole imporre. Se ci pensiamo, solo Dio rispetta veramente la nostra libertà.


Il Papa ha benedetto con il Santissimo il mondo da una piazza San Pietro vuoto. Lei ha invocato la Madonna Regina. Si torna a portare la croce o l’Eucaristia per le strade. È il volto di una Chiesa “in uscita” che si fa carico dello smarrimento dell’uomo?
Il Santo Padre Francesco ci ricorda che la Chiesa è sempre “in uscita”, poiché la sua missione è essere accanto alla gente, tutta. Condivide gioie e dolori sia nelle circostanze ordinarie, sia nei tempi straordinari come quello che viviamo. La Chiesa, anche in Italia, dà prova di conoscere bene le situazioni della gente, e di saper tradurre la fantasia della fede. La prima forma della carità pastorale è quella che il Papa ha proposto al mondo con il Vangelo e l'Eucaristia adorata in piazza San Pietro. È stato un momento emozionante: il primo atto di solidarietà è la preghiera a Gesù e alla Madonna. Ogni altro aiuto fluisce perché c'è un'anima, che non è quella dell'organizzazione, ma quella dell'amore di Dio che sospinge, anche a rischio della vita, verso chi ha bisogno. Il Santo Padre ci ha anche mostrato che non dobbiamo avere vergogna dei gesti religiosi pubblici: il suo è stato un atto squisitamente religioso. Di questo ha bisogno il mondo anche se non lo riconosce: la preghiera non è stata imposta ma proposta, e tutti sono rimasti toccati e pensosi.


La Chiesa italiana ha scelto di celebrare la Messa “a porte chiuse”. Un atto di responsabilità, non di arrendevolezza.
L’arrendevolezza è alla situazione concreta, ai rischi gravi di salute e di vita. La Chiesa si trova a fianco alle persone e a coloro che ne hanno cura. La decisione di tenere aperte le chiese salvaguarda il respiro spirituale di chi entra per una visita personale, e le doverose precauzioni. In questo contesto non si tratta di arrendevolezza a qualcuno, ma di buon senso: non quello di basso costo per giustificare mediocrità o pigrizia, ma di alto profilo perché guarda il bene della collettività. È interessante ricordare come diverse persone, che si considerano non credenti, hanno ringraziato perché abbiamo tenuto aperte le chiese: quando si vede una chiesa con le porte chiuse, subentra un senso di resa. È un sentimento universale. Dopo di noi, anche i vescovi di altre nazioni hanno seguito questa strada. Inoltre, la gente sente la vicinanza dei sacerdoti anche se non può partecipare alla Santa Messa. Sanno che il loro parroco è li, vicino a loro; che celebra l’Eucaristia senza il popolo, ma che prega per tutti: le famiglie, i ragazzi e i giovani, i malati e gli anziani, per i più poveri e per coloro che si prodigano con abnegazione ai malati. Il sacerdote che celebra da solo non è mai solo: non soltanto la sua comunità, ma l’umanità e il mondo sono raccolti nel sacrificio di Gesù che egli tiene nelle mani.

La celebrazione della Messa a porte chiuse

La celebrazione della Messa a porte chiuse - Ansa

Sono oltre 14mila i morti in Italia. Anche lei si è recato al cimitero per ricordare i deceduti in questa emergenza. La nostra società torna a scoprire la fragilità umana e il mistero della morte?
L’esperienza brutale della vulnerabilità è qualcosa che non dovremmo mai dimenticare. L'Occidente ci raccontava che siamo invulnerabili grazie alla scienza e alla tecnologia. Ma il castello è di carte. È chiaro che il progresso è un dovere dell’uomo, ma bisogna essere umili, avere il senso del limite, non crederci padroni della vita. Non possiamo farne quello che vogliamo con arbitrio, ma dobbiamo rispettarla e prenderla in cura in qualunque stadio si trovi. Basta un “invisibile” per metterci in ginocchio e ricondurci alla realtà. Siamo messi di fronte al convitato di pietra: il morire. La morte fa parte della vita, ma la cultura moderna tende a cancellarla dall'orizzonte, salvo poi consumarla e banalizzarla facendone motivo di curiosità morbosa, di saga e di gioco. Tanto che, a volte, si perde il confine tra fantasia e realtà. L'umanità ha sempre avuto timore della morte, ma soprattutto ha paura di morire in solitudine. Nell'attuale situazione, purtroppo, la solitudine del morire è un fatto doloroso sia per i pazienti sia per i famigliari che non possono avvicinarsi ai loro cari. Un dramma nel dramma.

Oggi è compito dei laici, come medici, infermieri e operatori credenti, accompagnare alla morte chi è in un reparto isolato o in una casa di riposo contagiata?
Come lei dice, coloro che curano il corpo in questo momento devono anche attenuare la solitudine del malato. Medici, infermieri, personale volontario, ne sono consapevoli e lo fanno: uno sguardo, una parola, un gesto. Sono rimasto commosso nel sentire che un'anziana paziente, prima di morire, ha fatto una carezza sul casco protettivo dell'operatore che la stava assistendo. Di questo abbiamo bisogno: di Dio e dei cirenei di Dio.

Papa Francesco ha sottolineato che «non ci si salva da soli» richiamando alla responsabilità dell'uno verso l'altro.
Non ci si salva da soli così come non si vive da soli. È vero che ognuno è una singolarità unica, e che nessuno si può sostituire all'altro. Ognuno nasce e muore individualmente: è un io. Ma se questo tipo di solitudine non può essere superato, è altrettanto vero, come dice il Papa, che nessuno è un’isola. L’isolamento è una cattiva solitudine che Dio non vuole, e che in occidente uccide senza rumore. Il nostro stile di vita è dominato dalla smania di successo e di efficienza cercando l'affermazione individuale: quando ciò viene meno, uno esce di scena, diventa invisibile come uno “scarto”. Il virus dell'indifferenza non si combatte con le leggi, ma solo con il cuore, perché l'amore non si può normare, viene dall'anima. L’indifferenza può essere un’espressione di egoismo, ma anche di difesa da ciò che disturba: non chiudere gli occhi alla fragilità universale rompe la gabbia e ci fa vedere la luce degli altri, ci aiuta a riconoscere che senza gli altri siamo più poveri, e senza Dio siamo poverissimi.

Un carrùggio nel cuore di Genova

Un carrùggio nel cuore di Genova - Ansa


Come sarà la Pasqua 2020?
Sarà semplicemente Pasqua, cioè l'incontro con il mistero della passione, morte e risurrezione del Figlio di Dio. La dolorosa impossibilità di partecipare alle celebrazioni del Triduo, sarà come una porta d'ingresso nella stanza più intima di Gesù, che ama l'umanità fino a questo punto. Le circostanze ci aiutano a capire che il nucleo del Triduo è l'amore di Dio che si lascia nell'Eucaristia e nel Sacerdozio, che soffre e muore nell’abbandono, risorge portando la nostra umanità con sé. Saremo meno distratti e capiremo meglio che Dio è entrato nella condizione umana, l'ha riscattata dal peccato e vi ha immesso la sua vita. Dio è Padre, non è geloso di noi, della nostra felicità: anzi la vuole e ci indica la strada, ma spesso non lo ascoltiamo. A volte siamo tentati di vivere la Pasqua con superficialità, solo come gloria e festa, dimenticando il Giovedì e il Venerdì Santo.


Lei ha celebrato la Messa nella chiesa dell’ospedale. Il Papa ha ringraziato coloro stanno “scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine”. Eroi silenziosi?
Nella normalità tutto sembra scontato, anche le cose più belle, ma ovvio non è. Lo dico spesso ai cresimandi: imparate a ringraziare i vostri genitori e chi si dedica a voi. Se non ringraziate vuol dire che siete immaturi, oggi immaturi e domani egoisti infelici. Chi non sa ringraziare non sa riconoscere i doni, e non si farà mai dono. Vedrà solo se stesso, e gli altri in funzione di se stesso. È una vita rattrappita. Oggi i medici e gli infermieri sono sotto i riflettori del mondo, ed è giusto, ma il loro dovere lo fanno da sempre, come le forze dell’ordine, e quanti oggi assicurano i servizi essenziali. Non dobbiamo essere così miopi da non vedere che la società va avanti grazie al lavoro quotidiano, e non dobbiamo diventare smemorati quando l'epidemia sarà alle spalle. Come dico ai ragazzi, agiremmo come dei fanciulli distratti e viziati, e quindi scontenti.


Come presidente dei vescovi europei, non pensa che questa emergenza possa mettere in crisi ancora di più l'idea di Europa. Il presidente Mattarella è già intervenuto due volte per richiamare la Ue alla solidarietà.
La crisi sanitaria è un banco di prova decisivo per l'Unione Europea: le parole sono importanti, ma contano i fatti. Nessuno oggi può avere la boria di salire in cattedra, tutti siamo piegati e smarriti, però l'Europa è osservata. Perché? In questo tornante della storia, l'Europa deve decidere chi è; o meglio deve riconoscere ciò che è da sempre, dalle origini. Sembra che si vergogni di avere un’anima, ma così si perde. Papa Francesco molte volte ha incoraggiato l’Europa a volersi bene, a ripartire dalle sue radici. Noi vescovi del continente siamo convinti che un cammino comune è necessario, poiché “non ci si salva da soli”, specialmente oggi in mezzo a giganti. L’epocale fenomeno migratorio è una grande sfida, ma le scappatoie per nascondersi alle responsabilità comuni sono più facili. Oggi, con la pandemia, questo non è possibile: ha messo in gioco la vita e l'economia dell'intero continente. Si guarda all'Europa per capire, nei fatti, se è una comunità di popoli, come volevano i padri, oppure un insieme di interessi privati, di lobby economiche e finanziarie, una piazza di mercati, dove alcuni sono più uguali degli altri. Sembra circolare un senso di superiorità di alcuni, pregiudizi ingiustificati che sono lontani dal principio di uguaglianza che dovrebbe ispirare comportamenti coerenti. Il continente è il distillato di una grande storia che ha nel cristianesimo l'alveo di flussi diversi e armonizzati. Il punto di sintesi è la persona vista non come un mero individuo, ma come intreccio di relazioni con doveri e diritti, libertà e responsabilità, aperta alla trascendenza religiosa. È diffuso un laicismo senza laicità. Nell'attuale urgenza, queste considerazioni possono apparire astratte; ma senza una vera identità ogni giusto richiamo all'umanità, alla giustizia, allo ius gentium, al dialogo, alla solidarietà, alla reciprocità... rischierà il vuoto, perché la parte non può stare senza il tutto: facilmente umanità diventerà umanismo, giustizia giustizialismo, dialogo dialogismo, solidarietà solidarismo, popolo populismo. Ogni “ismo” è espressione di patologia, magari parte da un frammento di verità, ma poi impazzisce.

L'allarme coronavirus a Berlino

L'allarme coronavirus a Berlino - Ansa

In alcuni Paesi la mancanza di posti letto in terapia intensiva o di cure per tutti apre la strada a una “selezione” dell’assistenza: si cura chi ha più probabilità di sopravvivere al virus. Un’eugenetica da coronavirus?
L’insufficienza di letti in terapia intensiva denuncia una visione parziale della sanità pubblica: a forza di tagliare sulla sanità si arriva a questi punti. Non penso che si possa prevedere tutto, poiché l'imprevedibile fa parte della vita; ma concepire tutto come “azienda” non aiuta ad avere le priorità giuste. Molte realtà corrispondono al termine "azienda", ma la vita umana non lo è, ed esige parametri diversi, basta ricordare l’articolo 32 della Costituzione. Personalmente cancellerei il termine dalla sanità e da altri settori. Ma il punto di partenza della deriva selettiva, a cui lei fa riferimento, è di tipo culturale: è una deriva antropologica. Riguarda il valore che la società riconosce alla persona, come ho detto sopra. Sta qui il centro della Dottrina sociale cristiana e dell’impianto di un Paese vivibile. Se la persona ha una dignità che non è concessa dallo Stato, ma che lo Stato riconosce inerente fin dal suo inizio, come anche la Costituzione codifica (articolo 2), allora tutto cambia nell'organizzazione della sanità, del lavoro, della scuola, della famiglia. Se questa visione non esiste, allora sarà inevitabile giungere a certe derive, compresa l’eugenetica comunque si chiami, senza lasciarci ingannare da parole solenni o accattivanti, che oggi si usano per contrabbandare certe aberrazioni. A chi tocca invertire la rotta?


Finita la pandemia, saremo davanti a una ricostruzione “post bellica”?
Dovremo non tanto recuperare il tempo perduto, ma non perdere il tempo che viviamo. Ciò significa far tesoro di oggi per vivere meglio domani. Se tornerà il delirio di potenza, le vittime non saranno onorate e non potremo costruire nulla di nuovo. Abbiamo visto che la fragilità ci appartiene, che la persona vale più del profitto, che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che galleggiamo in un mare di apparenza, e che siamo esposti al virus della futilità. Stiamo guardando in alto con gli occhi della fede e ci fa bene. Non dimenticare tutto questo è intelligenza. La ricostruzione ruota non intorno a se stessa, ma attorno alla persona e quindi al popolo. Io non ho visto la guerra, ma da bambino ho vissuto tra le macerie del centro storico di Genova. La mia famiglia era molto modesta, papà lavorava in fabbrica a volte anche di notte. Non è mancato il pane e la dignità, ma soprattutto respiravo un'aria di fiducia, e ognuno faceva la propria parte pensando al domani dei figli e del Paese. I bambini giocavano nei vicoli, spesso cercando tra le macerie chiodi e ogni pezzo di ferro per fare qualche lira. Le mamme, che facevano quadrare il magro bilancio, erano tranquille, perché vi era una vigilanza sociale, per cui i figli di uno erano un po’ i figli di tutti. In mezzo a fatiche condivise, la vita brulicava: noi bambini pensavamo alla scuola e a giocare fidandoci dei genitori e, più in generale, degli adulti senza lamentarci. E le ristrettezze non impedivano di accorgerci di chi era più povero: spesso mia madre mi mandava a portare il pasto a una coppia di anziani che vivevano in una delle tante baracche della zona. È vero: non si conoscevano molte cose. Oggi sì! Però, le molte informazioni non ci presentano solo l'abbondanza di pochi, ma anche la povertà e la miseria di molti. Non dobbiamo guardare solo il più, ma anche il meno: ci aiuterà a trovare un equilibrio interiore, a difenderci dall'ansia di avere di più ma di essere di meno.

La sanità spagnola in ginocchio per la pandemia

La sanità spagnola in ginocchio per la pandemia - Ansa

Intanto è già allarme povertà in Italia.
Oggi lo spettro della povertà è evidente, e cresce l'emergenza viveri: primum vivere! Ricordo che nel 2007 i vescovi italiani furono i primi a dare l'allarme della povertà che annunciava la grande crisi. Nelle parrocchie erano ritornati i pacchi viveri, che con mia madre andavo a ricevere negli anni cinquanta. Oggi l'emergenza alimentare cresce: le aziende hanno dovuto sospendere il lavoro, cosi le piccole e medie imprese, gli esercenti, e tanti lavori saltuari per uomini o donne, giovani o anziani, sono scomparsi. Le riserve si esauriscono presto, ma il piatto in tavola, la fine mese, i figli da crescere, i mutui e altro corrono. Le misure adottate sono iniziali: devono essere costantemente aggiornate, adeguate e facilmente raggiungibili, pensando a coloro per i quali i mezzi telematici, d'accesso, moduli complicati sono inaccessibili. In situazioni gravi e urgenti occorrono provvedimenti immediati, chiari ed essenziali, altrimenti si diffonde il pericoloso virus dello smarrimento e del senso di abbandono. La gente, che già vive l'incertezza, non può sentirsi oppressa da una burocrazia legislativa che alimenta se stessa. Presa dai problemi quotidiani, deve ricevere direttamente le erogazioni che non sono aiuti di Stato, ma compensazioni per qualcosa che lo Stato ha sospeso per gravi ragioni di salute pubblica. La Chiesa, come sempre, c'è con la sua fitta rete di quarantamila parrocchie, di centri di ascolto, gruppi, associazioni e organismi; con i sacerdoti e volontari pronti a intervenire in proprio, con risorse e strutture, e in collaborazioni con il pubblico, come sta avvenendo per l'emergenza sanitaria. L’ala della solidarietà sarà ulteriormente incrementata, ma c’è anche l’ala del lavoro. Il corpo sociale ha bisogno di entrambe per volare.


Appunto il lavoro è “bloccato” dal virus.
Come per una macchina rimasta ferma, per ripartire ci vuole qualche spesa, così la macchina del lavoro richiederà investimenti pubblici notevoli senza complicazioni burocratiche. L'emergenza vale per tutti. Fondamentale è che la gente non perda la fiducia, e si senta accompagnata da interventi sicuri e diretti. Allo stesso modo, le piccole imprese e i vari esercizi avranno bisogno di un volano per riprendere. In questa prospettiva, forse sarà necessario ripensare il rapporto tra pubblico e privato, tra centro e periferia, alla luce del principio di solidarietà e di sussidiarietà. I due estremi storici – capitalismo di Stato e capitalismo sregolato – devono trovare un punto di equilibrio, avendo come stella il bene comune. Forse sarà da registrare il nostro sistema complessivo e anche l'idea di globalizzazione, convinti che nulla è così fatale da non poter essere migliorato. In Italia non mancano persone di scienza e di esperienza per maturare, in tempi rapidissimi, una visione e proposte concrete, da vagliare nelle sedi democratiche.

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