giovedì 13 marzo 2014
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Vivo in una periferia, il quartiere Scampia di Napoli, divenuto simbolo di degrado, di malavita organizzata, di emarginazione sociale e culturale. In questo senso sono attirato da quello che il vescovo di Roma Francesco ha detto più volte, fin dall’inizio del suo dialogo con i cristiani e i non cristiani, richiamando l’attenzione verso le periferie del mondo. Il suo invito a vivere le periferie ha un significato di grande forza innovativa anche se da sempre la chiesa missionaria è presente in ogni continente, al servizio di tanti popoli che sono lontani dai centri del potere e del benessere.
Ci domandiamo che intende Francesco quando parla di periferie. Frutto della pianificazione urbanistica, la periferia, soprattutto per le grandi città, rappresenta la soluzione all’emergenza di quel fenomeno di migrazione interna tipico della rivoluzione industriale.  Intere popolazioni si sono riversate verso le città alla ricerca del benessere o per rispondere alla domanda di lavoro, abbandonando culture di appartenenza, tradizioni familiari, ambientali ed anche religiose. La speculazione edilizia ha sfruttato una tale emergenza costruendo nuovi insediamenti in cui spesso mancano opportunità di incontro, di socializzazione, di spazi verdi, oltre alla povertà di servizi essenziali per una vita dignitosa.
Il profilo di tante periferie urbane fa risaltare modalità abitative che hanno per la densità di abitanti, il carattere di alveari, di casermoni senza anima e bellezza, costringendo famiglie e persone all’anonimato e a un desiderio naturale di chiusura e di difesa o di evasione e di fuga. Doloroso è il contrasto con la presenza di insediamenti residenziali, sia all’interno delle città, sia in una periferia dorata, in cui il benessere e la ricchezza presentano una sfacciata esibizione di potere, di risorse, come in un arroccamento di sicurezza che ne fa vere e proprie cittadelle fortificate.
Potremmo dire che le periferie, terra di povertà e di miseria, sono funzionali al benessere di questa diversità di ceto sociale. Si riproducono quelle separazioni che la nobiltà e la ricca borghesia realizzavano con la costruzione di castelli e palazzi a cui la plebe o la popolazione in genere non era autorizzata ad accedere se non per fornire servizio umile, spesso manovalanza sotto pagata e sfruttata.
Permangono le evidenti sofferenze di una così vasta popolazione emarginata e non garantita che per lo più va considerata proprio “periferica” rispetto ai centri del potere e dei paradisi dove vivono i più ricchi. A Davos nel recente Forum si parla delle 85 famiglie più ricche del mondo che hanno le risorse corrispondenti al 50 per cento dell’intera popolazione mondiale. E’ una proporzione fra centro e periferia che grida vendetta, nell’ottica della stessa giustizia divina, di quel disegno del Regno di Dio in cui la dimensione della fraternità, dell’eguaglianza e della equità sono il segno della stessa benedizione del Creatore.
A buona ragione Francesco parla nella “Evangelii gaudium” di “disequità”, termine da lui stesso coniato, che riassume lo scandalo della diseguaglianza congiunto alla esperienza dell’ingiustizia. Non si tratta solo e più di una periferia spaziale, ma come è spesso ripetuto, di una periferia esistenziale, che diventa segno di una mancanza di dignità delle persone e delle intere popolazioni. Quello a cui Francesco preme indirizzare le coscienze è proprio evidenziare il più ampio fenomeno sociale e umano, lo scandalo della separazione, delle mille forme di esclusione, di dolorosa povertà reale che definisce vera e propria miseria, materiale, morale e spirituale, nel recente messaggio per la Quaresima di quest’anno.
Non è solo nelle periferie esterne alle città che ritroviamo una popolazione vittima di un tale sistema di esclusione. Spesso negli stessi centri storici ci sono ghetti di miseria, oggi anche rappresentati da minoranze etniche, di immigrati, sfuggiti alla violenza dei loro paesi di origine, in cerca di sopravvivenza, di libertà e di una speranza di vita dignitosa e pacifica. In tante nostre città ne sono una presenza dolorosa e scandalosa i campi dei nomadi per esempio rom, vere e proprie baraccopoli che anche se in piccolo, ricordano le favelas ormai presenti in tutte le capitali del mondo. Ogni luogo in cui si vive esclusione, emarginazione e miseria si può definire periferia, come rigetto di un’umanità che non serve alla vita e alla sicurezza di quella che viene definita la società opulenta.
Francesco indica una strada da seguire, iniziando dal visitare, dal capire e dal farsi carico di tali realtà. Potremmo dire che la conversione parte dai piedi, dal camminare fra la gente, nel varcare le soglie di quelle case in cui dieci persone abitano in due stanze e che condividono il gabinetto sul pianerottolo con un’altra famiglia che divide altre due stanze.
Per capire, per conoscere, per parlare è necessario varcare delle soglie, come si fa entrando nelle carceri, altre periferie che spesso assomigliano a discariche umane. Quanti cancelli bisogna varcare prima di poter abbracciare un detenuto che ha voglia di redimersi, di cambiare vita, sempre che la società civile sia in grado di accoglierlo e di offrirgli un nuovo cammino di legalità e di lavoro. Se riconosciamo la presenza delle periferie esistenziali è dovere di coscienza e di cultura aggiornarsi di continuo sulle cause che si succedono nel moltiplicare i fenomeni di esclusione e di emarginazione: e non sono solo cause immediatamente riconducibili a fattori economici.
La dispersione scolastica e l’abbandono che per esempio affliggono i ragazzi delle periferie, è causata dall’inadeguata attenzione e competenza che la scuola presta a quei processi di apprendimento e di acquisizione del linguaggio che in ambienti deprivati caratterizza i bambini fin dalla prima infanzia. Non è possibile che, seduti per ore sui banchi, i bambini, allineati e disciplinati, possano aprire la mente e il cuore su un mondo diverso da quello grigio, spesso violento e muto, che alcune famiglie vivono. Né il televisore sempre acceso, anche di notte, può essere la fonte di riferimenti simbolici che possano sostituire quei fantasmi che impediscono ai bambini di giocare serenamente, di comunicare e di vivere un’infanzia di gioia e di gioco. L’ignoranza è spesso la causa più dolorosa che blocca lo sviluppo di personalità libere e socialmente aperte, in grado di partecipare e di raggiungere un livello di responsabilità, non solo per il vivere personale, ma anche per interagire in progetti collettivi.
Ritorna la domanda di come intervenire in una situazione così complessa e dolorosa.
Sull’esempio di Gesù che aveva la strada come cattedra da cui insegnare ai discepoli, anche Francesco esce dal palazzo e dalla chiesa per incontrare, per conoscere, per capire. La sua azione è preceduta dalla commozione e da quel sentire prossimità con gli ultimi e i più poveri.
Di certo è difficile per la chiesa, dopo secoli di potere temporale e di strutture di ricchezza, ritornare ad essere povera come era povero il piccolo gruppo di Gesù e dei suoi discepoli, ma il porsi come scelta preferenziale vicino ai poveri, è già un superare barriere costruite in secoli di un’evangelizzazione basata prevalentemente su un annuncio di dottrina e spesso troppo distante dalla stessa comprensione del popolo più semplice. Né può bastare la cura di quella pietà popolare che caratterizza tante periferie, perché si giunga a una spiritualità di incontro con lo Spirito del Risorto, fermandosi invece a momenti di culto consolatorio e spesso superstizioso.
Francesco, ben consapevole di questa situazione della religiosità popolare, orienta il cuore e la mente dei fedeli sulla persona di Gesù, riferimento centrale della fede e di un incontro che scalda i cuori e li apre alla speranza. Se penso alle strade della periferia in cui abito, viene da sorridere per il numero di statue e di immagini sacre. Per entrare nel cuore della gente è necessario accogliere le loro sofferenze, accettare le differenze spesso laceranti, per scelte di vita anche sbagliate, ma con la certezza che nell’abbracciare anche chi è lontano si può comunicare quel calore che Gesù fa vivere nei nostri cuori.
Allora la periferia diventa centro, perché fa incontrare attraverso la condivisione quello sguardo del povero che ti insegna ad amare, a capire, a condividere. La centralità della periferia esistenziale nel cammino della conversione, significa spogliarsi delle sicurezze economiche, culturali, di appartenenza sociale, per condividere con il cuore del povero la sua sete di liberazione ed esserne partecipi.
Ad essere realistici, forse l’esempio che Francesco offre alla chiesa e agli uomini del nostro tempo, è la scommessa più difficile da vincere. E’ più facile assentire ai discorsi che mettersi sulla strada con lui e vivere quelle periferie che sono tanto vicine al nostro quotidiano. L’energia necessaria lui stesso la suggerisce quando la sua preghiera ha valore di semplicità e accomuna con decisione alla preghiera stessa che Gesù viveva nel sollevare chi era caduto e a guarire chi era perduto. L’Eucarestia quotidiana a Santa Marta indica la centralità del farsi pane spezzato, come Gesù e raggiungere le periferie del mondo con la forza del suo Spirito.
Padre Fabrizio Valletti
direttore del centro di formazione "Hurtado" a Scampia di Napoli
 
La testimonianza per la rivista “Popoli” è pubblicata sull’ebook dal titolo "In poche parole, Francesco" (EMI) acquistabile su tutte le librerie digitali.  
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