venerdì 11 ottobre 2019
Il cardinale Barreto e il vescovo Santin: ormai sono rarissimi e questo anche grazie all’evangelizzazione. Man mano che le condizioni migliorano queste barbare pratiche spariscono
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Non è stato tra i temi affrontati nella sesta congregazione generale di mercoledì pomeriggio – in cui è intervenuto anche papa Francesco – mentre ieri e oggi i lavori sono stati proseguiti dai dodici circoli minori, costituiti in base all’appartenenza linguistica. Perché è una questione marginale nei popoli amazzonici quanto strumentale: fin dall’inizio della Scoperta-Conquista, l’accusa di infanticidio è stata utilizzata per giustificare lo sterminio dei nativi, bambini inclusi.

Nel presente, invece, sono, qualche volta, delle sette pentecostali di tipo evangelicale a impiegarla per motivare la necessità di «integrare» i nativi, ovvero di procede alla loro omologazione forzata. Alcuni media, però, continuano a riproporre la questione all’appuntamento informativo quotidiano in Sala stampa vaticana. Qualche giorno fa, il cardinale peruviano Pedro Barreto, vescovo di Huancayo e vice-direttore delle Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), aveva smentito che la pratica fosse diffusa tra venti popoli indigeni della regione.

Ieri, è stato il vescovo Wilmar Santin, di Itaiuba, in Brasile, a spiegare che nella sua comunità – formata da indios Munduruku –, l’infanticidio è scomparso nel tempo anche grazie all’evangelizzazione. Monsignor Santin ha, inoltre, spiegato che si trattava di casi isolati e particolari, come la nascita di piccoli con gravi malformazioni o gemelli, di cui la famiglia – in una società di cacciatori raccoglitori che esige mobilità – non aveva i mezzi per farsi carico. Esempi comuni a molte realtà ancestrali, non solo nel Sud del mondo.

Man mano che le comunità acquisiscono nuovi strumenti culturali e materiali e strategia per risolvere i loro problemi etici l’infanticidio sparisce. Uno dei casi più conosciuti – e spesso citato dal noto bioeticista dell’Università di Brasilia, Volnei Garrafa – è quello degli indios Tapirá, del Mato Grosso do Sul.

Negli anni Cinquanta, essi continuavano a uccidere i nuovi nati con malattie. Poi, nel villaggio arrivò un gruppo di Piccole sorelle di Gesù che affiancarono l’evangelizzazione a una serie di interventi per migliorare l’agricoltura e garantire migliori condizioni di vita. La loro azione, condotta in un’ottica di lungo periodo, fu determinante per la scomparsa definitiva della pratica. Altre volte, il processo è interno al popolo stesso.

Attualmente, come afferma Nicole Freris, medico e esponente del Servizio internazionale dell’associazione delle Nazioni Unite (Unais), fra gli indios amazzonici, l’infanticidio è estremamente raro. Dello stesso parere, l’Ong Survival. «Lavoro con gli indigeni da tutta la vita – dice dom Roque Paloschi, vescovo di Porto Velho e presidente del Consiglio indigenista missionario (Cimi) della Conferenza episcopale brasiliana –. E posso affermare che si tratta di pochissimi casi» presenti tra i popoli più isolati o dove le condizioni sono particolarmente difficili. I dati lo confermano. Secondo l’ultimo censimento brasiliano, del 2010, la popolazione indigena è cresciuta del 205 per cento dal 1991. A partire dal 2000, è in aumento il numero di gemelli e di neonati albini. Ormai, ben un nativo su cinque ha qualche forma di disabilità, cifra incompatibile con l’idea del loro sistematico assassinio. Ad essere in allarmante aumento, invece, è il tasso di mortalità infantile: fra i nativi brasiliani esso è quattro volte superiore alla media nazionale. Ogni anno, centinaia di bimbi sotto i cinque anni vengono uccisi dalla denutrizione, dalla dissenteria, dalle infezioni respiratorie. Malattie curabili se solo venisse garantita alle comunità l’assistenza sanitaria di base prescritta dalle Costituzioni dei Paesi amazzonici.

A tal proposito, ieri al briefing, Medardo de Jesús Henao Del Río, vicario apostolico di Mitíú, nella regione colombiana del Vaupés, dove il 90 per cento della popolazione è nativa, ha raccontato la storia di una donna costretta a praticarsi il cesareo da sola per la mancanza di personale. Dei molti volti della violenza strutturale hanno parlato i Padri sinodali, come hanno sottolineato il prefetto della Comunicazione, Paolo Ruffini e padre Giacomo Costa, segretario della commissione per l’informazione. Tema analizzato in comunione con quello del dialogo tra le culture e all’azione della Chiesa per camminare con le genti dell’Amazzonia.

A quest’ultimo proposito, monsignor Santin ha ricordato l’importanza della formazione di un clero nativo. Riportando un aneddoto riferito dal cardinale Claudio Hummes, il vescovo di Itaituba ha detto: «Papa Francesco ha un sogno: avere in ogni villaggio un sacerdote indigeno. Come il Santo Padre chiede, nella mia diocesi siamo partiti da ciò che la Chiesa consente e abbiamo istituito, negli ultimi due anni, 48 ministri della Parola».

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