sabato 26 novembre 2016
«Essere eticamente responsabili crea valore economico e sociale per tutti»: ha spiegato segretario generale della Cei, Nunzio Galantino al festival della Dottrina sociale
Il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino al festival della Dottrina sociale (Foto Boato)

Il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino al festival della Dottrina sociale (Foto Boato)

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L’etica che fa bene all’impresa è quella che «non sopporta» un mondo in cui «62 ricchi posseggono quanto 3 miliardi e mezzo di poveri». Statistiche di Forbes alla mano, il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino ha aperto il convegno “Imprenditori per il bene comune in rete”, al Festival della Dottrina Sociale di Verona, tracciando una linea rossa. Netta - quest’etica «non sopporta un’idea di socialità nella quale si delega a pochi il compito di occuparsi del bene di tutti» - quanto esigente. Infatti, dal momento che «non c’è etica correttamente intesa e organizzata che non abbia come fine principale il bene comune», se, come converrebbe qualsiasi imprenditore, «agire eticamente non significa solo fare ciò che si deve fare, ma vuol dire farlo al meglio», si deve convenire che «l’Etica che fa bene all’impresa è quella che spinge a fare scelte orientate al bene comune, che è anche il bene dell’impresa».

Ragionamento impegnativo, davanti a seicento imprenditori riuniti nel Cattolica Center e a un sontuoso panel di testimoni e studiosi (il presidente di Cattolica Assicurazioni Paolo Bedoni, l’economista Stefano Zamagni, il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, il magistrato Antonio Sangermano, l’imprenditore Filippo Liverini e Riccardo Donadon, ideatore di H-Farm), perché un tale ragionamento porta lontano dalla pura e semplice condanna delle diseguaglianze - il «conservatorismo compassionevole» stigmatizzato da Zamagni - e impegna l’imprenditore a «praticare modelli di sviluppo che contribuiscono concretamente a ridurre le differenze e le distanze».

Partendo quindi dalla denuncia si è cercato di capire come umanizzare concretamente i processi produttivi e riscoprire la «dedizione alla qualità». Prendendo atto che non ci si può rifugiare nel ruolo dell’agenzia di aiuto - Galantino ha lodato per questo la legge 125/2014 che riconosce i privati come soggetti della cooperazione allo sviluppo - e ci si deve impegnare personalmente «a costruire le condizioni per un mondo in grado di promuovere la dignità di tutti». Il vescovo ha analizzato anche il rapporto tra esigenze etiche e imperativi di sviluppo: il servizio «non solo non contraddice un corretto bilanciamento di impegno e rendimento, ma anzi lo arricchisce».

Cioè, l’etica “paga”, seppur con modalità e tempi diversi da quelli riportati nei manuali di economia. L’impresa come servizio, infatti, «mette in gioco variabili inedite, che esaltano la centralità della persona, e la ricchezza di queste dimensioni è indeducibile dalla meccanica lineare che lega prezzo a prestazione». Quest’impresa magari non macina profitti smisurati, ma può innescare un circolo virtuoso e condurre a «un’economia che, oltre ad essere a misura d’uomo, si ritrova più solida e, sul lungo termine, vincente. Recenti ricerche, non ultime quelle dell’Ucid, mettono in evidenza come nel lungo periodo il valore economico di un’impresa eticamente responsabile si riveli superiore a quello di altre imprese.

Essere eticamente responsabili conviene – potremmo dire – perché si crea più valore economico e sociale a vantaggio di tutti, a patto che strumenti come i codici etici, le certificazioni etiche e ambientali non finiscano solo per essere specchietti per le allodole. L’etica, quella vera, quella che trae alimento da esigenze intrinseche all’economia e che si traduce in scelte operose e coraggiose - ha concluso -, diviene il miglior asset per il bene dell’impresa e la trasforma gradualmente in un’impresa del bene».

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