sabato 14 luglio 2018
I libri, gli abiti liturgici, persino l'orologio che aveva al polso quando è stato ucciso. Viaggio nell'appartamento di edilizia popolare a Palermo dove ha vissuto il beato
I visitatori davanti alla casa-museo di padre Pino Puglisi a Brancaccio

I visitatori davanti alla casa-museo di padre Pino Puglisi a Brancaccio

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«Poter “vivere” i luoghi di padre Pino è una spinta in più a sperare e a lottare per la giustizia!». La calligrafia è precisa. Ma non c’è una firma che segue il punto esclamativo. Le parole scritte da una mano anonima chiudono l’ennesima pagina di piccole meditazioni lasciate sul “libro dei pensieri” poggiato fra i mobili della cucina che fu di don Puglisi. «A chi visita la casa-museo chiediamo di lasciare un’impressione, un ricordo», racconta una delle guide volontarie, Matilde Foti. L’appartamento della famiglia Puglisi è oggi una sorta di “santuario” del prete beato. Quattro stanze in cui don Pino ha trascorso gran parte della vita e ci è tornato da sacerdote quando è stato nominato parroco del suo quartiere, Brancaccio. Perché l’abitazione si trova proprio nell’agglomerato di Palermo balzato all’onore delle cronache per essere stato il fortino di Cosa Nostra. E davanti all’ingresso della palazzina color ocra il prete del sorriso è stato ucciso da quattro sicari dei fratelli Graviano, i boss della zona. Un medaglione accanto al portone indica il punto in cui è morto il 15 settembre 1993, nel giorno del suo 56° compleanno.

Il corpo venne trovato fra le auto parcheggiate abusivamente. Oggi le vetture non possono più sostare in quell’angolo di fronte al civico 5 di piazza Anita Garibaldi. È una piccola vittoria del Centro di Accoglienza Padre Nostro che con la Fondazione Giovanni Paolo II ha restituito alla città da quattro anni la casa di “3P”. «Siamo convinti che questo sia uno spazio di testimonianza all’interno del quale padre Puglisi continua a parlare a tutti», spiega il presidente Maurizio Artale. Ed è qui che farà tappa papa Francesco il 15 settembre, nel 25° anniversario del martirio di don Pino. Bergoglio si fermerà nel primo pomeriggio in preghiera sulla soglia del condominio di edilizia popolare e renderà omaggio a un «coraggioso testimone della verità», come lo definì Giovanni Paolo II.

Basta salire due rampe per entrare nella casa. Negli appartamenti vicini continua ad abitare la gente di Brancaccio. “G. Puglisi” è scritto sulla porta. La targhetta è originale. Come lo sono i mobili, gli oggetti, i libri, persino i paramenti liturgici indossati dal prete di frontiera. Autentiche reliquie. Compresi un grammofono a manovella e il banchetto in cui si risuolava le scarpe. È il volto “francescano” del sacerdote quello che emerge dall’appartamento. Povero fra i poveri della sua terra. È ancora rotta la sedia su cui don Puglisi studiava. E nel bagno c’è il mobiletto in ferro da lui ridipinto che contiene il suo pennello da barba. Sul comodino della camera l’orologio che aveva al polso quando venne assassinato: segna le dieci e venti, due ore dopo l’agguato. «Il padrone del servizio è il bisogno» è la frase sottolineata più volte in uno dei suoi volumi. Ne aveva 6mila. Oggi ne restano 1.300, in maggioranza trasferiti nella biblioteca del Seminario arcivescovile. Quelli nella sua casa sono 330.

La storia dell’abitazione è travagliata. A distanza di qualche mese dal delitto, i fratelli del sacerdote ricevettero una lettera di sfratto. L’appartamento popolare era intestato a don Pino ed entro trenta giorni gli eredi avrebbero dovuto restituirlo. Nessuno si oppose al provvedimento. In fretta e furia venne sgomberato. E per anni ci ha abitato una famiglia che poi l’ha anche riscattato. «Grazie al cielo – rivela Artale – i fratelli di padre Puglisi hanno conservato quello che c’era dentro». Finché il Centro Padre Nostro non l’ha comprato. «E con l’aiuto della Provvidenza è nato il museo», chiarisce il presidente. Che ogni anno accoglie più di 6mila visitatori. «Arrivano da tutta Italia e molti sono giovani, i prediletti di “3P”», aggiunge Matilde. Fanno da ciceroni dodici bambini assieme a operatori, volontari, suore, detenuti in semilibertà. E la casa fa parte anche della rete Cei dell’Associazione musei ecclesiastici italiani.

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