domenica 29 marzo 2020
Il vescovo di Bergamo racconta il travaglio della sua diocesi. «Penso ai tanti deceduti in solitudine». Per il dopo, «decisivi saranno la condivisione e l'esercizio della responsabilità personale»
Il vescovo di Bergamo Francesco Beschi

Il vescovo di Bergamo Francesco Beschi - Ansa

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Ci sono luoghi che diventano l’emblema, la sintesi di una storia che riguarda tutti. Capita nei giorni di festa, a maggior ragione succede nelle tragedie, quando a dover essere condivise sono le lacrime. Oggi, questo ruolo amaro è toccato a Bergamo, suo malgrado il simbolo dell’incubo che sta consumando ciascuno di noi. Per il numero impressionante delle vittime, ma anche per la forza della reazione, per la tenace volontà di ripartire, di ricostruire.

Sofferenza e speranza, morte e annuncio di vita nuova che venerdì scorso, al Cimitero Monumentale il vescovo Francesco Beschi ha voluto stringere in un unico abbraccio. Nella sua omelia, il presule ha chiesto la misericordia di Dio per i vivi e per i defunti, specie per quelli morti soli. Nell’introduzione alla veglia ha sottolineato il desiderio, l’impegno a sentirsi uniti «nella distanza », ha chiesto la consolazione per coloro che piangono un distacco, ha auspicato che «la preghiera si faccia partecipazione densa di affetto, di vicinanza, di cordoglio».

E davvero c’è bisogno di coraggio, serve un forte senso di comunità per non disperare davanti all’interminabile elenco delle vittime, per non alzare le braccia di fronte alle immagini della tragedia che si sta consumando. Su tutte, la fila dei camion militari che portano le bare nei comuni fuori Bergamo, perché in città il forno crematorio è al collasso. «Un’immagine straziante – sottolinea il vescovo Beschi –. Si allunga l’ombra della morte, che non è solo l’allungarsi di una lista; è un’ombra che entra nell’anima. Non possiamo sottrarci al vissuto doloroso di coloro che vedono i propri cari sparire nel nulla. Penso ai 24 preti diocesani morti e conosco molte persone, anche nostri sacerdoti, che hanno perso il papà o la mamma senza poterle salutare. Venerdì sono stato al centro del cimitero monumentale di Bergamo, nel cuore del dolore, con il dolore nel cuore, per dare voce e rendere una voce sola il pianto di tante famiglie che affidano alle mani di Dio i loro cari che non hanno potuto funerare, ma sanno che in lui non sono dimenticati».

Mi sembra che la comunità di Bergamo al di là della terribile sofferenza cui è costretta, stia reagendo con grande forza e consapevolezza. A proposito di coraggio, ci sono tanti sacerdoti che stanno testimoniando una dedizione, un amore al limite dell’eroismo. In mezzo a tutte queste restrizioni, come può la Chiesa essere concretamente in mezzo alla gente. Cosa raccomanda ai suoi preti?

Più che raccomandazioni ai miei sacerdoti faccio sentire la mia vicinanza e la mia gratitudine per l’esempio di dedizione pastorale e paterna che stanno dimostrando in questi giorni. La diocesi conta circa 400 parrocchie e veramente sto vedendo manifestazioni le più disparate, fantasiose, nuove, per promuovere questa vicinanza. I preti si sono mossi sui social, con celebrazioni in streaming, con proposte di video e di testi in chat. La stessa diocesi ha del materiale in supporto sul sito www.diocesibg.it e www.oratoribg. it. Questa vicinanza va in direzione della consapevolezza che Dio, che pure sta nella prova con noi, non ci sta abbandonando. Come diocesi abbiamo accolto malati in quarantena che non possono rientrare nelle case. In Seminario ci sono cinquanta stanze per medici e infermieri che vengono da fuori Bergamo o preferiscono non rientrare in famiglia. Abbiamo aperto “Un cuore che ascolta”: un telefono che riceve chiamate da persone che hanno bisogno di confronto, riflessione, consolazione dal punto di vista spirituale o psicologico. Ci lavorano sacerdoti, suore, anche laici. E abbiamo pensato ai poveri tra i poveri, riorganizzando strutture dove senzatetto e migranti possono vivere in modo sicuro.

E i fedeli, le persone comuni a lei cosa chiedono?

A me sembra che in questo momento ci sia un grandissimo bisogno di vicinanza. Ma non basta. Nei giorni scorsi, quando ancora non si aveva la percezione della gravità del morbo si continuava a “vivere pensando a un po’ più a se stessi”. Adesso ci sentiamo più vicini. L’urgenza ha fatto scattare una solidarietà generosamente impressionante. La solidarietà ha poi fatto nascere il senso di prossimità.

Da pastore qual è il pensiero più ricorrente in questi giorni?

L’invocazione al Signore del dono della fortezza. Lo chiedo per i malati, per le famiglie che soffrono e che piangono, lo chiedo per gli operatori sanitari e le forze dell’ordine e per gli amministrativi, lo chiedo per le autorità, lo chiedo per le persone che nel silenzio e nell’anonimato stanno garantendo i servizi indispensabili in questi giorni, lo chiedo per i miei sacerdoti. Noi diciamo Messa, tutti i giorni, da soli. Non possiamo farlo con il popolo, ma lo facciamo per il popolo. La mancanza fisica della gente ci fa soffrire; ma la Messa resta un momento per noi decisivo, ne scaturisce comunque un bene spirituale: nel Signore siamo uniti a distanza.

Ha ricevuto una testimonianza concreta della vicinanza del Papa che ha detto di portare la sofferenza di Bergamo nel cuore. Quello di Francesco, mi sembra di capire, è stato un gesto di grande importanza.

Ho sentito il Papa camminare al nostro fianco. Questo si è concretizzato con molta emozione quando mi ha chiamato al telefono. Il Santo Padre è stato molto affettuoso manifestando la sua paterna vicinanza, a me, ai sacerdoti, ai malati, a coloro che li curano e a tutta la nostra Comunità. Ha voluto chiedere dettagli sulla situazione che Bergamo sta vivendo, sulla quale era molto informato. È rimasto molto colpito dalla sofferenza per i moltissimi defunti e per il distacco che le famiglie sono costrette a vivere in modo così doloroso. Mi ha pregato di portare a tutti e a ciascuno la sua benedizione confortatrice e portatrice di grazia, di luce e di forza. In modo particolare mi ha chiesto di far giungere la sua vicinanza ai malati e a tutti coloro che in diverso modo stanno prodigandosi in modo eroico per il bene degli altri: medici, infermieri, autorità civile e sanitarie, forze dell’ordine. Un sentimento di profondo compiacimento lo ha espresso verso i nostri sacerdoti, colpito dal numero dei morti e dei ricoverati, ma anche impressionato in positivo dalla fantasia pastorale con cui è stata inventata ogni forma possibile di vicinanza alle famiglie, agli anziani e ai bambini, segno della vicinanza stessa di Dio. Papa Francesco ha promesso che ci porta nel suo cuore e nelle sue preghiere quotidiane. Questo suo gesto così delicato di premura e la sua benedizione di padre è stata una eco, una continuazione, una realizzazione concreta per me e sono convinto per l’intera diocesi e per ciascuno di quella carezza del nostro santo Giovanni XXIII che abbiamo invocato nella supplica e che la natura con i primi germogli di primavera ci sta riconsegnando.

E quando la crisi sarà finita, speriamo presto, su cosa bisognerà puntare per ricostruire? L’epidemia ci cambierà? Come?

Abbiamo attraversato molte crisi. La crisi economica e finanziaria non è stata uno scherzo. La crisi ambientale non è uno scherzo. C’è anche una crisi ecclesiale. Molte volte abbiamo detto: non sarà più come prima, dobbiamo imparare dagli errori, non dobbiamo ripeterli. La domanda è: siamo pronti a imparare? Le famiglie faranno i conti con le perdite, i posti vuoti. La risposta non l’ho ancora. Due sono gli elementi decisivi: la condivisione solidale, necessaria per venirne fuori; e l’esercizio di una responsabilità personale. Se riusciremo a crescere, almeno sarà venuto un frutto da questa vicenda terribile.

Lei è il pastore di una comunità che sta affrontando una prova terribile, c’è una preghiera che in questi giorni fa più spesso?

La liturgia delle ore mi fa sentire in sintonia con i miei sacerdoti e con tante comunità. C’è poi il Rosario. Infine e in modo speciale la supplica a papa Giovanni che ho desiderato anche fare pubblicamente insieme a tutta la diocesi in collegamento televisivo. Non siamo abituati a supplicare qualcuno, ci sembra che la supplica faccia venir meno la dignità, ma nella sofferenza la supplica nasce dal cuore, è appunto accorata. Siamo piccoli, fragili, umili, viviamo un grande dolore, ma ci mettiamo tutto il nostro cuore. La supplica è sempre rivolta a Dio, con l’intercessione della madre di Gesù, dei santi, e del nostro meraviglioso Papa bergamasco. Sono andato a rileggermi la supplica di san Bernardo nell’ultima cantica del Paradiso, in cui prega Maria affinché Dante possa vedere il volto di Dio. Là è la supplica della bellezza, qui nasce dal dolore.

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