sabato 19 novembre 2022
Comboniano, figlio della nota famiglia del miele, ha dedicato la vita all’Africa. «Dio è amore: se c’è qualcuno soffre, io sono il suo servitore»
Padre Giuseppe Ambrosoli

Padre Giuseppe Ambrosoli - Archivio Comboniani

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Fare memoria di padre Giuseppe Ambrosoli è un preciso dovere dell’anima per i suoi confratelli. Soprattutto, in occasione della celebrazione di questa domenica in cui verrà proclamato beato nella sua missione di Kalongo, nel Nord Uganda. È impossibile infatti non custodire il ricordo di un uomo innamorato della vita, un amore alimentato da una passione infinita per il Regno di Dio e da un’ininterrotta progettualità missionaria. Medico e sacerdote comboniano, fonte inesauribile di idee e di iniziative, padre Ambrosoli, oltre che interlocutore mai banale e generoso di spunti e suggestioni, non temeva di parlare della morte ma lottava per tenerla lontana dai suoi pazienti, sfidando ogni genere di malattia. Per lui la medicina era un modo concreto per rendere intelligibile il Vangelo e la testimonianza espressa in sala operatoria o in corsia era strabordante.

La sua fama si diffuse un po’ ovunque in tutto il Nord Uganda e sono numerosi gli aneddoti che ne tratteggiano la popolarità. Chi scrive, ad esempio, una volta ricevuta l’ordinazione diaconale nel maggio del 1985, un giorno si recò per impartire i battesimi in un villaggio, nei pressi del lebbrosario di Alito, ad un folto gruppo di catecumeni. Il primo di loro pretese di essere battezzato con il nome di «Doctor Ambrosoli». All’obiezione se non fosse più conveniente essere chiamato «Giuseppe», si oppose strenuamente perché era stato il «Doctor Ambrosoli» a salvargli la vita nel suo ospedale.

Sta di fatto che da quelle parti sono molti coloro che portano quel nome. Ciò che colpiva maggiormente i pazienti di Kalongo era la straordinaria capacità di padre Ambrosoli di infondere speranza. Non si trattava di semplice coerenza professionale ma di un trasporto e partecipazione totale in quello che stava testimoniando, e non per mero apparire esteriore ma dal profondo del proprio essere, tanto da suscitare nella gente un religioso rispetto.

Nato il 25 luglio 1923 a Ronago, in provincia di Como, era uno dei figli del fondatore dell’omonima azienda del miele. Forte di una solida spiritualità, si iscrisse alla facoltà di medicina con il desiderio di partire per la missione. «Dio è amore, c’è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore», spiegò ai propri familiari. Conseguita la specializzazione in medicina tropicale al “Tropical Hygiene” di Londra, con entusiasmo e senza rimpianti, lasciò alle spalle l’agio della condizione familiare e una carriera medica che si prospettava brillante in patria.

Fece il suo ingresso nel noviziato comboniano di Gozzano (Novara) il 18 ottobre 1951 e quattro anni dopo, il 17 dicembre 1955, venne ordinato sacerdote dall’allora arcivescovo di Milano e futuro Papa, Giovanni Battista Montini. Il 10 febbraio 1956 partì per l’Uganda, con destinazione Gulu (capoluogo del Nord del Paese). Da qui si trasferì a Kalongo nell’estremo Est dell’attuale arcidiocesi di Gulu. Quando vi giunse, vi trovò un piccolo centro di maternità e un dispensario che trasformò sotto la sua guida, in un vero e proprio ospedale.

Nel 1959 fondò, sempre a Kalongo, con l’aiuto della consorella comboniana suor Eletta Mantiero, la Scuola per ostetriche e infermiere. Nel 1972 poi, si fece carico anche dei lebbrosari di Alito e Morulèm. Gli unici intervalli in cui si assentò da Kalongo, furono i brevi periodi rappresentati dalle vacanze, spesso trasformate in autentici tour de force per accrescere le sue molteplici competenze nel campo chirurgico e procurare fondi per il complesso ospedaliero.

La comboniana suor Caterina Marchetti descrive così una giornata di lavoro di padre Ambrosoli: «Incominciava con la sala operatoria verso le 7.30 del mattino e finiva alle 13.30 e a volte anche oltre. Rientrava per il pranzo; poi una breve pausa di riposo e quindi in dispensario a visitare gli ammalati fino alle 8 di sera. Subito dopo rivedeva gli operati della mattina e poi andava a cena. Dopo lo si vedeva recitare il Rosario camminando nel cortile della missione, poi si recava in chiesa e lì rimaneva parecchio tempo. Prima di andare a letto rivedeva i conti o scriveva lettere. Le sue ore di sonno erano molto poche. Spesso di notte lo chiamavamo in maternità per emergenze di ostetricia. Uno si domanda come facesse, anche perché molto tempo lo dedicava alla preghiera».

Il pomeriggio del 27 marzo 1987 si spense a Lira, 44 giorni dopo essere stato costretto ad abbandonare la sua Kalongo a causa dei ribelli. «Padre Ambrosoli ha certamente contribuito a inserire a pieno titolo il servizio medico nella prassi evangelizzatrice, che allora era soprattutto intesa come annuncio attraverso la Parola e i sacramenti in vista della fondazione di una Chiesa locale», ha scritto di lui il postulatore, padre Arnaldo Baritussio.

L’opera del beato Ambrosoli ha trovato un felice proseguo nell’impegno profuso da un altro medico-missionario, padre Egidio Tocalli (che riaprì l’ospedale nel 1990) e dalla Fondazione Ambrosoli, costituita nel 1998 dai suoi familiari e dai comboniani. Motivo per cui ancora oggi i pazienti di Kalongo non possono fare a meno di dire: «Apwoyo, Brogioli!» Grazie padre Ambrosoli!

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