mercoledì 7 dicembre 2022
Nel tradizionale discorso per la festa del patrono ambrosiano l'arcivescovo ha, tra l'altro, elogiato la buona politica e l'inquietudine che contesta paure ed egoismi. Appello alla fraternità
L’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, pronuncia il tradizionale Discorso alla città nella festa del patrono sant’Ambrogio

L’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, pronuncia il tradizionale Discorso alla città nella festa del patrono sant’Ambrogio - Fotogramma

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Un invito accorato ad accogliere i «gemiti inascoltati» di Milano e del mondo. Un appello a non chiudersi in paure ed egoismi, a farsi sempre incontro agli «altri», a scoprirsi «popolo in cammino». E un triplice «elogio»: l’elogio della «inquietudine» che bussa alle porte delle nostre certezze; l’elogio del «realismo della speranza» che «riconosce la vocazione alla fraternità iscritta in ogni vita umana» e contesta la rassegnazione alla guerra, alla violenza, all’ingiustizia; l’elogio della «democrazia rappresentativa» e della politica che è servizio del bene comune, a partire da «chi è più fragile e bisognoso».

S’intitola «E gli altri? Tra ferite aperte e gemiti inascoltati: forse un grido, forse un cantico» il Discorso alla Città pronunciato ieri sera nella Basilica di Sant’Ambrogio dall’arcivescovo Mario Delpini, come tradizione nei vespri per la solennità del patrono di Milano.

Un discorso che nel titolo mette «un punto di domanda». Ma Milano non se ne stupirà, è certo il presule. Che muove la sua riflessione confidando nell’attitudine ambrosiana alla generosità concreta e lungimirante di fronte ai segni e alle sfide dei tempi. Ma soprattutto: ricordando come «nella storia» operi «la provvidenza di Dio che è promessa di vita, di vita buona, di vita eterna».

In questa promessa ha radice quel «realismo della speranza» che non accetta il fatalismo né l’attivismo «ottuso». Salomone e Ambrogio, Manzoni e papa Francesco le “fonti” a cui attinge Delpini nel Discorso pronunciato davanti a sindaci, politici, rappresentanti delle istituzioni impegnati nel vasto territorio ambrosiano.

A quanti si impegnano per il bene comune sono rivolte le parole di gratitudine dell’arcivescovo che, nella terza parte del Discorso, diventano «elogio della politica» che non cerca vantaggi personali o di parte ma si ostina a chiedersi «e gli altri?», e a prendersene cura:siano «i bambini che subiscono violenze e abusi» o «le donne maltrattate, umiliate, picchiate in casa», gli anziani soli, le persone senza casa o assistenza sanitaria, i ragazzi che bruciano la vita tra dipendenze e violenze, quanti non vanno a scuola, non lavorano, o «lavorano troppo e sono pagati troppo poco», quanti «subiscono prepotenze, estorsioni, ricatti dalla malavita organizzata che si insinua dovunque».

Ed ecco l’elogio della «democrazia rappresentativa» e del «sistema costituzionale in cui viviamo, esito di un doloroso travaglio, della tragedia della guerra, dell’oppressione della dittatura, della sapienza dei legislatori».

Ma è l’«elogio dell’inquietudine» quello che apre il Discorso: l’inquietudine – per fare un paio di esempi – di fronte alle derive di una città che «demolisce le case popolari e costruisce appartamenti a prezzi inaccessibili», tagliando fuori famiglie giovani, lavoratori, anziani; o, guardando ai rapporti fra i popoli e alle migrazioni, l’inquietudine per «una civiltà che si chiude e muore e lascia morire popoli pieni di vita». «Faccio l’elogio dell’inquietudine – scandisce il presule – perché mi faccio voce della comunità cristiana, della tradizione europea e italiana, della lungimiranza sui destini della civiltà occidentale».

Il passo successivo: l’«elogio del realismo della speranza», di quella speranza «autentica» che «non ricerca l’immunità (come difesa dall’altro) ma la comunità (come difesa dell’altro)». Il realismo della speranza «smaschera l’illusione dell’individualismo, forse la radice più profonda dell’infelicità del nostro tempo», aiuta a riconoscere come «la vocazione alla fraternità è la condizione di sopravvivenza dell’umanità» e illumina e alimenta la risposta a sfide come la crisi demografica, l’emergenza educativa, la tutela della salute e il «prendersi cura nelle situazioni limite della malattia».

La solidarietà non sia «appendice lodevole» ma «principio rivoluzionario del sistema economico», sottolinea Delpini stigmatizzando quel «neoliberismo» che dispensa paternalismo e filantropia perpetuando iniquità e sfruttamento. Quindi, parlando delle «esperienze disastrose delle guerre» che «convincono dell’assurdità dei conflitti»: «non possiamo rinunciare al realismo: percorriamo e incoraggiamo a percorrere le vie della diplomazia, della preghiera, della reazione popolare alla guerra, agli affari sporchi che la guerra favorisce».

In conclusione: «Gli altri, chi sono? Sono la nostra inquietudine, sono interlocutori e annunciatori della nostra speranza, sono chiamati a essere il “noi” che si governa nelle istituzioni democratiche».

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