martedì 19 febbraio 2019
Don Guarinelli: sacrificare la propria identità pur di abbracciare una vocazione, condurrebbe al paradosso di una vocazione che si realizza non donando se stessa
don Stefano Guarinelli

don Stefano Guarinelli

COMMENTA E CONDIVIDI

Parlare di tendenze omosessuali "profondamente radicate" oppure "espressione di un problema transitorio" quando si parla di giovani laici, ma anche di candidati al sacerdozio ha poco senso. Non solo perché l’omosessualità è ormai termine che definisce un arcipelago di situazioni complesse ma anche molto diverse tra loro, ma anche perché l’orientamento sessuale è solo un tratto della personalità, certo di grande rilievo, ma che non può definire complessivamente la persona, neppure dal punto di vista vocazionale. È l’opinione di don Stefano Guarinelli, sacerdote e psicologo che si è occupato a lungo del tema soprattutto in riferimento ai seminaristi.
L’ha fatto per esempio sulla "Scuola Cattolica" (Edizioni Àncora), la rivista teologica del Seminario di Milano, con due ampi articoli sulla "Formazione del seminarista con orientamento omosessuale" (n.3/2018 della rivista, pp.445-474 e n.4/2018 pp.503-533). Nella sua riflessione il sacerdote psicologo spiega tra l’altro che l’omosessualità è uno spazio vasto e in gran parte indefinito e vale più come "contenitore" di situazioni differenti alcune delle quali non rientrano nei criteri indicati dai documenti del magistero, eppure esigono un’interpretazione.

Nel valutare la personalità dei candidati al sacerdozio o dei seminaristi lei scrive che "è doveroso affermare che l’orientamento omosessuale non è patognomonico". Ma possiamo dire questo solo perché il Dsm (il Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali compilato dall’American psychiatric association) ha cancellato l’omosessualità dalle patologie o perché ne siamo veramente convinti?

Il fatto che il Dsm abbia "derubricato" l’omosessualità rende quel sintomo non più significativo proprio in quanto sintomo. Evidenziare che il sintomo omosessuale non è patognomonico, invece, non significa renderlo insignificante. Significa riconoscere, piuttosto, che esso procede o può procedere da una costellazione complessa di dinamismi (individuali e sociali) al punto da ridurre il dato in se stesso a qualcosa di estremamente povero per le informazioni che porta. In altre parole: a coloro che affermano che l’omosessualità non sia un problema, noi non possiamo limitarci ad affermare che continuiamo a pensare che lo sia. Dovremmo dire, piuttosto, che quando parliamo di omosessualità, in realtà, stiamo parlando di cose molto diverse fra di loro, così che il solo riferimento al termine è vago al punto da risultare perfino poco rilevante.


Nel documento della Congregazione per l’educazione cattolica si parla di tendenze omosessuali "profondamente radicate" oppure "espressione di un problema transitorio". Perché queste due definizioni rischiano di risultare entrambe imprecise?
Perché tutto ciò che si riferisce all’identità individuale (di cui il genere è comunque un elemento qualificante) non è espressione di unamente isolata, ma procede sempre dall’interazione fra il dato biologico e quello culturale. La cultura, dunque, ha una parte importante nel plasmare e legittimare quei simboli che il soggetto individuo giungerà ad assumere come tratti della propria identità psicologica. Ciò è di grande rilievo, sia quando ci riferiamo a dinamismi che parrebbero radicati, sia quando ci riferiamo a dinamismi che parrebbero transitori.
Ad esempio: fino a non molti anni fa, una certa confusione riguardo alla propria identità di genere non era rara in adolescenza. La si considerava transitoria perché la cultura promuoveva in modo netto alcuni simboli che identificavano (appunto) il maschile e il femminile, e l’adolescente "sapeva" che lì doveva arrivare. Non sto qui a valutare se ciò derivasse dalla sola legittimazione di alcuni stereotipi, se fosse bene o se fosse male. Di fatto quei simboli "c’erano" ed erano piuttosto nitidi. Là dove i simboli diventano meno nitidi, meno condivisi, la transizione può prolungarsi nel tempo o, addirittura, stabilizzarsi come transizione. Evidentemente una transizione che si stabilizza non è più una transizione. In ogni caso, questo stato di cose svela che il soggetto individuo non è proprietario assoluto dei propri simboli identitari. Non è lui a sceglierli (non del tutto, perlomeno); non è lui il proprietario unico di quelle caratteristiche, anche se è convinto di esserlo. Ciò che vale per quanto è considerato "transitorio", vale anche per ciò che è riconosciuto come "radicato".


Secondo la dottrina anche una persona con tendenze omosessuali "profondamente radicate" deve cercare di "realizzare la volontà di Dio nella propria vita", anche cercando di non essere quello che è. Qui non c’è contraddizione tra il teologicamente corretto e il bene umanamente possibile?

A mio parere qui si trascura il fatto che all’interno della personalità ogni tratto (compreso dunque l’orientamento sessuale) partecipa dell’intero e non è, invece, un elemento irrelato. Il che significa che la persona che afferma di avere un orientamento omosessuale andrà conosciuta in quella complessità inedita di cui quel tratto è una parte, ma non il tutto, e che pure con quel tratto esprime qualcosa della propria umanità. Trascurare questo stato di cose conduce ad alcune derive, psicologiche ma pure teologiche. In primo luogo, isolare il tratto dicendo forse che quella persona è ok, tranne che per quella "stranezza", significa non riconoscere che quella "stranezza", sarà pure una stranezza, ma rende quella persona unica, con delle caratteristiche singolari, che sono anche al di là dell’orientamento sessuale in senso stretto. Se mi limito a considerare quella persona a partire dal solo tratto, sto facendo una lettura riduttiva, dunque irrispettosa di quanto quella persona nella sua ricchezza e complessità comunque esprime. E si badi bene: esprime proprio perché quel tratto "c’è"; e non, invece, "nonostante" quel tratto. A scanso di equivoci: tutto ciò non presuppone una valutazione positiva o negativa del tratto in se stesso. Proprio perché ogni singolo tratto non procede in modo isolato e isolabile, un talento, così come pure una vulnerabilità e perfino un difetto evolutivo, possono essere negativi o positivi a partire dal grado di integrazione della personalità. Una intelligenza non integrata può essere inutile e perfino disastrosa, così come una aggressività e una depressione bene integrate possono essere straordinariamente feconde.
Dire questo non mi costringe ad affermare che la depressione e l’aggressività siano buone. In questo senso, nemmeno l’intelligenza da sola, paradossalmente, lo è. Certo, dell’intelligenza si può dire che potenzialmente sia buona. Eppure, "potenzialmente" non esiste. Esiste nei fatti, cioè nei comportamenti. In secondo luogo, incorporare il tratto e chiedere il sacrificio come modo "vocazionale" di vivere, ad esempio, la propria omosessualità non è in sé una richiesta sbagliata, a patto che ciò non equivalga ad affermare che tutta la personalità deve "sacrificarsi". Perché se il tratto non può essere isolato, ma del legame con gli altri tratti non ci si avvede a sufficienza, chiedere di sacrificare quel tratto è come esigere di prescindere da se stessi. Il che condurrebbe al paradosso di una vocazione che si realizza, non donando se stessi, ma prescindendo da se stessi. Le due espressioni non si equivalgono. Saremmo distanti dalla logica dell’Incarnazione, ma pure dal dono di sé cristiano: esso procede da un apprezzamento di sé, giacché non fa un dono colui che disprezza ciò che dona. E saremmo altrettanto distanti dalla logica dei carismi che è categoria chiave per comprendere ogni vocazione cristiana.


Quando si parla di orientamento sessuale e di identità di genere spesso si rivendica una "pretesa teoretica" che quasi sempre risulta una semplice opinione oppure rimanda a un approccio culturale tutto da dimostrare. Il magistero non dovrebbe tener conto dell’estrema variabilità delle teorie a riguardo?

È vero. La grande frammentazione delle psicologie rende l’interpretazione del "fenomeno umano" estremamente controversa, soprattutto là dove non si colgono le antropologie implicite che soggiacciono alla molteplicità delle prospettive. Il risultato non può che essere di grande confusione. Il che non è necessariamente un male, perché fa comprendere che, appunto, quel "fenomeno umano" è realtà di complessità ineguagliabile e che ogni interpretazione rappresenta una prospettiva, cioè l’osservazione a partire da un particolare punto di vista. La confusione non è perciò un problema, quando sollecita, prima di tutto, un atto di umiltà e, subito dopo, un rilancio della ricerca. Diventa un problema, invece, quando favorisce una via d’uscita che si erge con la pretesa di essere una sorta di prospettiva assoluta. Un punto di vista diventa "il" punto di vista. È indubbio che osservare le cose da una sola prospettiva "semplifichi" l’osservazione. Il guaio è che la rende meno reale. Nel caso dell’omosessualità accade qualcosa del genere, ad opera dei suoi molti "osservatori", cultura, media, psicologia e Chiesa, compresi.


La questione della legittimità morale degli atti omosessuali è problema così teologicamente spinoso che ormai si preferisce lasciarlo alla coscienza della persona. Ora è vero che il magistero più recente – Amoris laetitia – non si esprime a riguardo, ma davvero non possiamo dire nulla su questo punto?

In realtà la valutazione della legittimità morale dei comportamenti non è semplicemente lasciata alla coscienza della persona: la dottrina, in questo, è chiara. Ciò non esime, tuttavia, dalla necessità di approfondire e capire, di più e meglio (cf il § 2. della lettera del 1986, della Congregazione per la Dottrina della Fede, sulla cura pastorale delle persone omosessuali). Assistiamo, invece, a prese di posizione che hanno dell’assiomatico. La psicologia del Dsm, a mio parere, procede in questo modo e non interpreta il dato. Mi sento di dire, tuttavia, che la Chiesa spesso non fa di meglio. In questo senso, allora, la teologia, quale riflessione critica sul dato di fede, potrebbe essere di grande aiuto. Gli spazi di indagine sono diversi e andrebbero tutti percorsi. I problemi sorgono quando su questo tema si considera, ancora una volta, una sola prospettiva, sottovalutando di fatto la grande complessità che riveste. Nel senso comune viene imposta una linea che vede nella sola cultura lo spazio di costruzione dei simboli sessuali. Ritengo che l’intreccio natura-cultura sia assai più articolato, ove le due istanze non solo interagiscono, ma reciprocamente – come ci mostrano le neuroscienze – giungono a trasformarsi. Detto questo, tuttavia, una riflessione teologica dovrebbe considerare che la stessa rivelazione biblica mostra forme di amore imperfetto, eticamente distorto, in qualche caso perfino patologico, eppure capaci di esprimere qualcosa dell’amore di Cristo e per Cristo.
Come immagine, mi piace ricorrere al brano di Lc 7,36-50: Gesù accoglie il gesto della prostituta, perché quel gesto, probabilmente, era il solo linguaggio che quella donna conosceva per avvicinarsi fisicamente ad un uomo. Gesù non approva la condotta della donna, eppure "si lascia fare", riconoscendo che, comunque, attraverso quel linguaggio pure sbagliato, la donna sta esprimendo amore. Né saprebbe farlo diversamente. Se cerchiamo di giungere alla perfezione dei gesti e dei comportamenti, non giungiamo al Vangelo. Il Vangelo è di più della somma delle perfezioni umanamente esprimibili. In questo è realmente Grazia. Certo, non dobbiamo essere ingenui al punto da ignorare che un gesto imperfetto, seppure nella Grazia del Signore, può condurre comunque a sofferenza, ma può perfino opporsi alla Grazia. Non si può dire, perciò, che "basta l’intenzione"!Ancora la teologia, con il contributo delle scienze umane, potrebbe fruttuosamente riflettere su quei dinamismi, fisici, psichici ed etici, che fanno prevalere gli ostacoli (dunque la sofferenza) all’azione della Grazia.
Ancora nel testo di Lc 7, Grazia e dolore sono ugualmente presenti. Voglio pensare che questi siano gli indicatori di un cammino. Far prevalere, per ingenuità, la bontà della sola intenzione rischierebbe di condurre a una vita distorta. Non accada, tuttavia, che per mancanza di fiducia nella Grazia del Signore, si vada alla ricerca di un umano "perfetto", ponendo quella perfezione come condizione per l’esperienza di Lui. A nessuno – dico: a nessuno – questa può essere negata. L’imperfezione è di casa in moltissimi ambiti dell’umano: qui siamo ben oltre la questione dell’orientamento sessuale. Molti modi di essere eterosessuale sono imperfetti, come lo sono altrettanti modi di essere celibe, o single. Di nuovo: occorre interpretare il dato, ogni dato, così che ogni persona (perfetta o più probabilmente imperfetta) possa vivere e non ostacolare il dono dello Spirito Santo che è in lei.

LEGGI ANCHE L'ARTICOLO INTRODUTTIVO ALLE INTERVISTE

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI