mercoledì 27 marzo 2013
​La necessità di chinarsi sull'umanità sofferente nel richiamo del nuovo Pontefice. Saper vedere nell'altro il nostro "prossimo" come il Buon Samaritano; lasciarci guidare dalla preghiera nel percorso insidioso della vita. Sono due delle vie tracciate dall'allora arcivescovo di Buenos Aires in preparazione alla Pasqua e raccolte in un volume di prossima uscita
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Pubblichiamo un estratto dal volume Aprite la mente al vostro cuore di Jorge Mario Bergoglio - Papa Francesco, edito da Rizzoli e in libreria a partire da venerdì 29 marzo. «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria» (Mt 25, 31). Perché verrà, e noi siamo in sua attesa. «Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò» (Lc 19, 15). Sono tante le parabole in cui Gesù fa riferimento al «ritorno». «Verrà nella sua gloria», ma tale gloria non rinnegherà la realtà precedente, la realtà di Gesù vivo, «venuto nella carne» (2Gv 7). Il Signore non è solo spirito: «Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 24, 39). E Nostro Signore risorto ritornerà, alla fine dei tempi, anche sotto forma di carne. Sarà così più vicino a noi, e tutta la carne vedrà la gloria di Dio (Is 60) e sarà carne gloriosa. Quel Verbo che si fece carne (Gv 1, 14) non ci giudicherà secondo i criteri di un’etica astratta o puramente «spirituale», ma in base a quel modello di vita che Egli stesso ha vissuto e che Egli stesso ha tracciato per noi. Saremo giudicati sulla scorta di quanto avremo saputo avvicinarci a «tutti gli uomini» riconoscendo in quella stessa carne il Verbo di Dio. Il Verbo fatto uomo rimette i peccati del mondo attraverso la sua passione; si carica di ogni sofferenza, di ogni colpa. Gesù si avvicina alla carne peccatrice e per salvarla offre la sua stessa carne (Col 2, 14). Gesù non «passò oltre» (Lc 10, 31ss), Egli è il buon samaritano. Noi saremo giudicati secondo quanto ci saremo accostati alla carne sofferente, secondo quanto avremo saputo vedere nell’altro il nostro «prossimo». Molte persone hanno disdegnato di avvicinarsi alla carne dei loro fratelli: sono passate oltre come il levita e il sacerdote della parabola (Lc 10, 31). Altre si sono avvicinate, ma in modo sbagliato: hanno razionalizzato il dolore rifugiandosi in luoghi comuni («la vita è fatta così»), o hanno posato il loro sguardo solo su alcuni, in maniera selettiva, oppure si sono schierate nelle fila di coloro che adornano la loro vita di frivolezze per dimenticarsi della sofferenza.Avvicinarsi alla carne sofferente significa invece aprire il cuore, lasciarsi commuovere, mettere il dito nella piaga, portare sulle spalle il ferito, pagare due denari e alla fine farsi carico di tutte le spese. Saremo giudicati secondo quanto saremo stati capaci di seguire questo modello. E per poter comprendere il senso di tutto ciò (poiché il reale significato si coglie con l’intelligenza, col cuore e con le nostre opere), dobbiamo lasciar entrare nella nostra vita modi di pensare, di sentire e di procedere diversi da quelli a cui il mondo ci ha abituato: – amare la giustizia con la stessa sete di chi cammina nel deserto; – preferire la ricchezza della povertà alla miseria a cui conduce il benessere mondano; – aprire il cuore alla tenerezza anziché addestrarlo alla prepotenza; – cercare la pace, più forte di ogni pacifismo; – avere uno sguardo limpido, che proviene da un cuore altrettanto puro, evitando di cadere nell’avida accumulazione dei beni (Mt 23, 16). E tutto ciò concretamente si traduce nel non temere di avvicinarsi alla carne, alla carne che ha fame e sete, alla carne malata e ferita, alla carne che sta scontando la propria colpa, alla carne che non ha di che vestirsi, alla carne che conosce l’amarezza corrosiva della solitudine nata dal disprezzo. «Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò». Lo stesso re glorioso che ha avuto il coraggio di avvicinarsi alla carne sofferente. E, alla fine dei tempi, potrà godere della contemplazione di questa carne glorificata solo chi ha saputo riconoscerla e avvicinarla anche quando la sua gloria era celata dalla lordura e dalle piaghe che la ricoprivano – uomo reietto e disprezzato –, quando la sua gloria era nascosta poiché «venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14) come un nostro fratello. «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. [...] In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). Il Vangelo ci propone pertanto un cammino da seguire per la nostra vita. E, se contempliamo il Verbo celato nella carne, noi – creati con la stessa materia – saremo colmati dalla contemplazione della gloria di Dio. Si tratta di preparare la nostra carne a questa visione; la nostra carne sarà glorificata, la stessa carne con cui cercheremo di riconoscere il Verbo di Dio nel nostro prossimo: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1Gv 1, 1). Preparare la nostra carne alla contemplazione significa servire il prossimo e comparire quindi alla presenza di Dio, sottoporre la nostra vita all’azione del Verbo e dello Spirito per la gloria del Padre; metterla a servizio, un servizio che sfinisce e stanca: ritornare poveri, in cammino, pellegrini... Porsi con tutta la carne «alla presenza di Dio» significa anche pregare. La preghiera ci guiderà nel cammino, a volte facile, a volte insidioso, per riconoscere il Verbo nella carne sofferente, per consegnare la nostra carne alla volontà di Dio e per vivere secondo lo Spirito. La preghiera ci prepara affinché i nostri occhi vedano e contemplino il Verbo sotto forma di carne, gloriosa, che verrà per giudicare quanto saremo stati capaci di riconoscerlo nella carne del prossimo.
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