mercoledì 28 aprile 2010
Sono 4,4 milioni le persone che nel nostro Paese dedicano tempo gratuitamente a chi soffre: eppure anche lo storico patrimonio di generosità e altruismo sta subendo un graduale processo di mutazione genetica.
La macchina del bene, inosservata e possente
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Più forte della crisi e dell’individualismo, il volontariato in Italia si conferma patrimonio nazionale. Sono infatti 4,4 milioni i nostri connazionali che nel tempo libero si dedicano ad attività gratuite. Rispetto al 1996 ci sono 600mila persone in più impegnate per il bene comune senza chiedere nulla in cambio, la popolazione di una città di medie dimensioni. Ma nel prossimo decennio questo mondo deve cambiare linguaggio e mentalità per aprirsi alle generazioni digitali.Una ricerca della Caritas italiana e dell’Iref delle Acli, presentata ieri a San Benedetto del Tronto al trentaquattresimo convegno nazionale delle Caritas diocesane, punta infatti lo sguardo sull’attività volontaristica del Belpaese rielaborando i dati Istat dal 1996. In vista del 2011, anno europeo del volontariato, si concentra sulla fascia del 18-19 enni e dei ventenni. I giovani degli anni Novanta, sostiene lo studio, erano una componente fondamentale della società civile organizzata. Tre lustri dopo non lo sono più. Se nel 2009 il numero in assoluto dei volontari è cresciuto, quello degli under 35 è invece calato. I giovani sono stati rimpiazzati da una platea molto numerosa di pensionati baby, fenomeno tipicamente italiano. Questo sul breve periodo garantisce stabilità alle attività di volontariato, tratto distintivo di un’Italia che si rimbocca le maniche. «Ma dobbiamo pensare al futuro – spiega il vicedirettore di Caritas italiana, Francesco Marsico – perché vediamo che si dedicano al volontariato in prevalenza le generazioni nate negli anni 50 e 60. Ci siamo domandati perché i giovanissimi sono più freddi». Prima delle risposte ancora qualche dato. Nel 2006 il numero di under 24 impegnati cade di cinque punti rispetto al 1996, dal 17 al 12% circa. E tra il 2006 e il 2008 i dati peggiorano ulteriormente per i giovani dai 25 ai 34 anni. Nel 2009 arrivano i segnali di relativa ripresa, con una salita all’11%. «Abbiamo avviato una riflessione con il mondo cattolico impegnato nel sociale – prosegue Marsico – oltre alla Caritas, le Acli, la Comunità di Sant’Egidio, Focolarini e neocatecumenali, ci siamo chiesti cosa è cambiato nel rapporto ta giovani e volontariato e abbiamo avviato una ricerca qualitativa». L’indagine si basa sulle storie e non sui numeri. Ed emerge che il volontariato nell’età più critica esercita un fascino minore rispetto al passato per quattro motivi prevedibili e una novità. «Certamente incidono crisi e precariato, l’individualismo crescente, la decrescita demografica e la fine della leva obbligatoria che ha interrotto il servizio civile. Inaspettatamente cresce l’incomunicabilità tra le generazioni. Gli educatori faticano ad ascoltare questi ragazzi che hanno un approccio diverso ai problemi sociali, spesso conosciuti attraverso le rappresentazioni stereotipate dei media e che magari fanno paura. Quindi vedono diversamente anche l’impegno».La ricerca individua allora due capisaldi: chi ha meno di 24 anni e fa volontariato in Caritas oggi proviene da esperienze con gruppi scout o parrocchie. «Quando c’è una realtà strutturata di educatori adulti – conclude Marsico – che rileggono con loro le esperienze, i ragazzi si impegnano. Prediligono naturalmente l’aiuto concreto, come servire il pasto ai senza dimora nelle mense, aiutare anziani o disabili. Così si abbattono le barriere della realtà virtuale e i problemi si trasformano in persone con un nome e un volto, in amici». Proposta da portare nelle scuole e università, dove i coetanei impegnati possono presentare le proprie esperienze. Ed elaborare nuovi codici intergenerazionali per il linguaggio della solidarietà.
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