lunedì 6 ottobre 2014
Aveva dissuaso due ventenni dall'ingresso al Pronto soccorso di Voghera per farsi prescrivere il farmaco. 
Boscia (Amci): tutelare libertà degli operatori
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Si è dimessa l'infermiera del Pronto Soccorso dell'ospedale di Voghera (Pavia), che nei giorni scorsi era finita al centro delle cronache per aver negato per due volte l'accesso al reparto di Ginecologia ad altrettante ragazze che volevano farsi prescrivere la pillola del giorno dopo. A dare notizia delle dimissioni è stata l'Azienda ospedaliera della provincia di Pavia, attraverso un comunicato diffuso martedì pomeriggio.L'infermiera non ha voluto commentare la sua scelta di dimettersi. I fatti (di Viviana Daloiso)La ricostruzione dei fatti è ancora incerta. Ma le cose, all’ospedale di Voghera, devono essere andate su per giù così: due ragazze arrivano di notte, a pochi giorni di distanza, chiedendo la pillola del giorno dopo. Cioè quel farmaco controverso che – se assunto appunto entro le 24 ore dal rapporto “a rischio” – impedisce la gravidanza, o la interrompe (il che semanticamente sarà anche diverso, ma nei fatti è difficilmente distinguibile). Per il farmaco serve la prescrizione di un medico, per questo le due ventenni provano la via del pronto soccorso: facile, per certi versi più anonima. Senza contare che a quell’ora è difficile trovare un medico disponibile per la ricetta altrove. Allo sportello incontrano una giovane infermiera: è lì per gestire le domande di ingresso, fa il suo lavoro di “triage”, ma informata delle loro intenzioni abbandona per un attimo il ruolo professionale e le invita a riflettere su quello che fanno. Le due decidono di andarsene. A questo punto scoppia il finimondo: all’ospedale arriva una mail di protesta ed ecco che «l’infermiera le ha cacciate», titolano i giornali locali, con la notizia che presto finisce anche su quelli nazionali e il dibattito sulla pillola del giorno dopo che si riaccende, un altro diritto da garantire ad ogni costo senza chiedersi perché o come. L’infermiera intanto finisce sulla graticola: l’azienda ospedaliera avvia un’indagine interna per verificare il suo operato e la possibilità di sanzionarla. Lei si difende: «Non le ho assolutamente minacciate, ho solo cercato di convincerle a rinunciare e a salvare così una vita umana». E si appella al codice deontologico della categoria, che in caso di conflitto etico impegna l’infermiere a «trovare la soluzione attraverso il dialogo», autorizzandolo ad avvalersi dalla «clausola di coscienza» per attività in contrasto con i suoi valori. «È evidente che anche per gli infermieri, come per tutti gli operatori sanitari, vale il diritto all’obiezione di coscienza e questo in particolare per quanto riguarda l’aborto – spiega a questo proposito Mario Morello, presidente dell’Associazione operatori sanitari cattolici (Acos) – o altri interventi delicati come la chiusura della tube. Detto questo, mi risulta singolare che le due ragazze, più che maggiorenni, si siano fermate davanti al consiglio di un’infermiera e non abbiano chiesto di parlare col medico, che poi è quello che ha la responsabilità prescrittiva del farmaco». Più grave il giudizio di Filippo Boscia, presidente dell’Associazione medici cattolici (Amci), secondo cui il caso di Voghera va nella direzione di mettere a tacere il diritto all’obiezione di coscienza: «Lo si fa con lo spauracchio di procedimenti sanzionatori, peraltro dal punto di vista legale legittimi in virtù del fatto che il farmaco è ritenuto contraccettivo. Bisogna allora sollevare il problema – conclude Boscia – anche perché la situazione delle prescrizioni è fuori controllo, da tempo chiediamo al ministero un registro».
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