giovedì 10 ottobre 2013
Dopo l’appello di Napolitano, sì all’indulto e riforme strutturali. Il vicecapo del Dap Pagano: puntiamo al reinserimento dei rei.
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Sedici anni trascorsi a San Vittore, come direttore, lasciano il segno. Luigi Pagano, oggi vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è di ritorno da un convegno sindacale dove ha incontrato colleghi, agenti, operatori che dietro le sbarre lavorano, ogni giorno. «Questa gente la devi convincere ad andare avanti, a fare sempre meglio». Nonostante il nostro sistema carcerario stia esprimendo ormai da troppo tempo il peggio. Di amnistie Pagano ne ha già viste. I detenuti col sacco nero assiepati ai cancelli, lo sguardo vuoto perché alle spalle, dentro, nessuno ti ha insegnato niente, o quasi. Perché la parola reinserimento «in Italia l’abbiamo dimenticata, ed è davvero tempo di recuperarla».Il lungo messaggio di Napolitano alle Camere l’ha sorpresa?Nient’affatto. Chiunque abbia a che fare con le carceri avrebbe scritto le stesse cose. Le ripetiamo da anni, ci insistiamo. Il presidente ha avuto il grande merito di battere i pugni sul tavolo e dire una volta per tutte: basta, ora si deve cambiare.Dunque, amnistia. Lei è d’accordo?In questo momento non abbiamo alternative, la situazione è diventata ingestibile.Era così anche nel 2006, eppure non è cambiato niente. Perché? Mancano fondi? Mancano leggi?Sono convinto che le leggi che abbiamo siano buone. Certo, molto si deve fare nel campo dell’applicazione delle pene alternative per i reati “leggeri”, sui cui siamo indietro rispetto agli altri Paesi, un altro punto ben sottolineato dal presidente Napolitano. Quando ci troviamo di fronte a un tossicodipendente o a un immigrato, è assurdo pensare che possa essere utile aprire le porte del carcere. Servirebbero comunità, percorsi diversi. Per esperienza posso dire che spesso non si trovano, perché mancano idee, manca cultura e manca fiducia. Troppa gente è convinta che la pena coincida con il carcere: non è così. Il carcere è un servizio, il reinserimento è lo scopo. E se non ci mettiamo nell’ottica che per reinserire i detenuti dobbiamo lavorare a progetti, attività, iniziative, non andiamo da nessuna parte. Nemmeno con indulti e amnistie.Dunque, reinserimento. Da dove si comincia?Investendo nelle carceri, proprio come si fa negli ospedali e nelle scuole. Per esempio, nel campo del lavoro: le aziende vanno portate dentro i muri delle case circondariali, collaborazioni e progetti vanno avviati per fornire ai detenuti competenze. Se trasformo una persona in meglio, otterrò un abbassamento della recidiva, farò risparmiare fondi destinati alla giustizia e, per ogni persona pienamente recuperata, potrò parlare di un pericolo in meno e di una risorsa in più per la società. Se la faccio uscire uguale a come è entrata, avrò fatto tutto per niente. Il dramma delle nostre carceri, oggi, è che questi uomini e queste donne escono addirittura peggiori di quando sono entrati.E costruire nuove strutture? Qualcuno lo propone da tempo.Lo stiamo facendo. Anche qui il nodo è culturale, però. Ormai ci siamo assuefatti ad avere carceri totalmente indifferenziate: grandi cubi che contengono corpi. Troppi corpi. San Vittore, ad esempio, è l’espressione architettonica stessa del concetto di pena: la sua struttura dice "qui si paga, non si cresce, non si cambia". Per le nuove carceri dobbiamo puntare su ambienti che privilegino spazi comuni e all’aperto, laboratori, aule. In cella si dovrebbe solo andare a dormire.
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