sabato 28 dicembre 2013
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La procura dei minori di Reggio Calabria la­vora perché i figli non paghino le colpe dei padri. Né delle madri. «È l’unico ufficio d’I­talia che sta seguendo una strada difficile per il recupero di ragazzi che vivono in contesti fami­liari mafiosi», ha sottolineato il questore della città dello Stretto, Guido Longo, parlando del­l’impegno degli inquirenti reggini che da più d’un anno percorrono un sentiero tanto coraggioso quanto difficile. Ma importantissimo, per i ra­gazzi e le famiglie.

La magistra­tura inquirente, assieme al tribu­nale dei minori, sta dando segui­to al protocollo d’intesa siglato a marzo con gli altri uffici giudiziari del distretto di Reggio per avere una strategia e quindi una linea d’intervento comune quando ci si trova dinanzi a ragazzi o bam­bini provenienti da ambienti cri­minali o imputati in processi per reati commessi in concorso con adulti. Oppure, ancora, vittime di abusi sessuali e d’altro genere. Un accordo a largo spettro, che ha a­vuto bisogno di mesi di prova sul campo. L’iter è un terreno mina­to, sul quale tanto il procuratore dei minori Carlo Macrì quanto il suo aggiunto Francesca Stilla si muovono con estrema attenzio­ne. «Non si tratta di beni da se­questrare o confiscare», sottoli­neano con amarezza. Sono in­terventi mirati a offrire una pos­sibilità di vita diversa ai ragazzi inseriti in contesti malati, a fare loro toccare con mano che han­no un’altra possibilità e la loro e­sistenza non è segnata dalla nascita. Il protocol­lo in Calabria è più importante che altrove per­ché i clan locali hanno un carattere anzitutto fa­milistico: amicizie e odi, alleanze e vendette si tramandano di padre in figlio, da nonno a nipo­te.  L’accordo non dimentica i figli d’eventuali col­laboratori di giustizia, anch’essi assistiti affinché non diventino merce di scambio o peggio anco­ra di ricatto e intimidazione come già successo. I provvedimenti applicabili ai piccoli sono di va­rio genere e diversa intensità: dal più blando, con l’affidamento ai servizi sociali che lo controlla­no a distanza, al più drastico come l’allontana­mento dalla famiglia con l’inse­rimento in una comunità, sem­pre fuori regione per evitare con­dizionamenti d’ogni genere. In un anno e mezzo sono stati una decina i casi affrontati dal tribu­nale dei minori, e per tre-quattro ragazzini le risposte sono state ottime. Comunque si tratta di provvedi­menti temporanei, che perdono efficacia al compimento dei 18 anni, quando i ragazzi tornano nelle famiglie d’origine anche se, spesso, i problemi non sono sta­ti risolti. Anzi i giovani sono a un bivio fondamentale della loro e­sistenza, ancor più bisognosi di un aiuto esterno. Ecco perché in­quirenti e autorità giudiziaria chiedono l’intervento degli altri organi dello Stato così come d’as­sociazioni di categoria e altre si­gle, affinché aiutino i neo mag­giorenni, soprattutto quanti han­no dimostrato di volere davvero cambiare strada, a inserirsi nel mondo del lavoro.

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