mercoledì 2 gennaio 2008
COMMENTA E CONDIVIDI
Recenti, tragici casi di vittime del freddo hanno riportato l’attenzione sulle migliaia di persone - italiani e stranieri - che dormono all’aperto perché ormai auto-emarginate dalla società. In molti casi, l’aiuto da parte di istituzioni, spesso religiose, può fare riprendere il percorso di integrazione
Sara/Bolzano
«Sola e disperata. Poi ho ritrovato mia figlia»
La lunga notte di Sara è finita da pochi giorni. Era cominciata 20 anni fa, in un paese in provincia di Bolzano, dove è nata nel 1968. Prima l’anoressia, poi l’alcolismo, colpa di rapporti sbagliati con la famiglia d’origine. Quindi il matrimonio, giovanissima, con un uomo con gravi problemi di dipendenza dalla bottiglia e dal gioco d’azzardo, forse per cercare di fuggire dalla realtà. Un’unione che dura pochi anni. Un giorno il marito sparisce e Sara scopre che le ha lasciato una montagna di debiti. Si era rivolto a usurai legati alla malavita per poter trovare i soldi per giocare. E quando venne minacciato di morte, scelse di fuggire senza preoccuparsi di Sara e dei loro due figli. L’abbandono è un colpo durissimo. La giovane perde il lavoro, non è più in grado di pagare l’affitto dell’alloggio popolare. La famiglia si disgrega completamente. Lei non si prende più cura dei figli né di se stessa, ogni giorno l’unica attività è quella di trovare una bottiglia di vino o di superalcolici, e stordirsi. Da anni Sara non ha più contatti con la madre e il padre, l’assistente sociale affida i suoi bambini, un maschio e una femmina che frequentano le elementari e le medie, agli zii paterni. Sara è sola. Finisce a dormire nella sala d’aspetto della stazione di Bolzano e comincia la sua parentesi di vita di strada. Dura qualche mese. Mangia alle mense, si sdraia dove capita. È estate, riesce ancora a resistere, cerca di procurarsi con ogni mezzo l’alcol. Poi arriva il freddo e chiede aiuto. I volontari la indirizzano alla casa di Margaret, una struttura voluta nel 1998 dal vescovo Wilhelm Egger, morto il 16 agosto scorso. Il quale aveva capito che nel popolo della strada le donne aumentavano e vi era una penuria assoluta di strutture loro dedicate. Dieci anni dopo dalla casa di Margaret, dal nome di una senza dimora di Bolzano morta tragicamente, sono passate 600 donne. Sara viene inserita e avvia un percorso di disintossicazione. Alterna periodi in clinica psichiatrica a depressioni, cure farmacologiche a sedute con gli alcolisti anonimi. La comunità della casa, dalle operatrici alle sue compagne, la sostiene. Alla fine, un anno fa, è riuscita a trovare un lavoro protetto in una cooperativa sociale. Riprendere i contatti con i figli, ormai grandi. Un’assistente sociale nel frattempo ha preso a cuore il suo caso, riuscendo a spiegare alla figlia, oggi maggiorenne, ciò che è accaduto alla madre. Combina un primo incontro, un po’ freddo; altri ne seguono. Madre e figlia vogliono rivedersi. Sono giorni di speranza. Sara ha trovato un appartamento in affitto da condividere con una sua collega. Per la prima volta ha l’impressione che le tessere del mosaico della sua vita stiano andando a posto.
Salvatore/Bari«Col lavoro ho perso tutto. Adesso aiuto chi sta male»Vuole fare un regalo agli homeless: il lavoro e la dignità. Ma anche lui sta sulla strada. «Quattro anni fa ero una persona serena e normale che viveva con la moglie in una casa confortevole e conduceva un’esistenza sociale gratificante. Oggi, a causa della perdita del lavoro e dell’impossibilità - a 57anni - di un reinserimento, sono sulla strada e ho perso tutto, abbandonato da parenti ed amici». Salvatore De Salvo, barese, di sé dice solo che abita in una casa d’accoglienza. «Assieme - racconta - a ex-detenuti, ex-alcolisti, malati mentali ed altri emarginati. Ce ne sono 300 a Bari in queste condizioni». Salvatore ha deciso di non rassegnarsi. «Due mesi fa, mentre dialogavo con i miei amici e rilevavo sui loro volti e nei loro discorsi un’ombra di rassegnazione a una vita aggrappata alle mense per poveri, ai dormitori, o peggio, alle panchine dei giardini pubblici, ho provato nel mio cuore prima un sentimento di comprensione e poi un fremito di ribellione». Ecco l’idea di Salvatore, che si definisce voce degli ultimi: dare vita a un gruppo di Azione civile. «Vivere senza un lavoro è peggio di una diagnosi di cancro. Da disoccupato tutti ti evitano, giudicandoti un incapace». Il 10 dicembre nasce così il movimento denominato Acis (Azione civile per l’inclusione sociale). Salvatore ha scritto a molti, tra cui la Caritas italiana, per illustrarlo. «Si tratta di un’associazione che accoglie le persone in una situazione di disagio sociale ed economico a causa della perdita del lavoro; persone che hanno la capacità e la volontà di impegnarsi». Homeless che vogliono lavorare sul luogo che meglio conoscono. Nei prossimi giorni Salvatore proporrà all’amministrazione comunale di Bari il progetto «Strade a 5 stelle»: un senza fissa dimora diventerà «Sovrintendente di strada». «Costui - si legge nella presentazione - circolerà tra le persone della sua strada senza divisa né armi, segnalerà eventuali pericoli o disservizi ai competenti organismi municipali; richiederà, quando ne ravvisi l’impellente esigenza, l’intervento delle forze dell’ordine; garantirà, dalle 7.30 alle 21.30 un accurato servizio di solidarietà, assistenza e accoglienza ai residenti e ai forestieri». In particolare, gli operatori si propongono di aiutare i cittadini nella separazione dei rifiuti. «Il successo della raccolta differenziata - spiega Salvatore con precisione imprenditoriale - nella quale la città di Bari è a quota 20% contro un obiettivo del 45%, richiede un lavoro assiduo, paziente, quotidiano di informazione che soltanto il "Sovrintendente di strada" può eseguire». Inventarsi un lavoro dalla strada, una scommessa che merita di essere vinta.
Giulio Cesare/Milano«Il gioco mi ha annientato. Riscatto grazie ai volontari»Nel 1973 Giulio Cesare R. prese il treno per Milano. Aveva 43 anni, oggi ne ha 79. Lasciava una famiglia e un bel po’ di guai a Firenze, la sua città. Faceva il restauratore, una bottega ben avviata. Sposato con una donna benestante, dalle nozze erano nati due figli. Non gli mancava niente, ma aveva un grosso problema. «Giocavo pesante d’azzardo ed ero pieno di debiti - racconta - volevo cambiare aria per provare a uscirne. Tornavo a casa durante i fine settimana. Poi ho ripreso a giocare. E con mia moglie è finita». Giulio nel frattempo aveva aperto un laboratorio dalle parti di Porta Romana. Guadagnava bene. Incontrò un’altra donna. «Misi su casa in una cittadina dell’hinterland con la mia compagna e sua figlia, alla quale ho fatto da padre. Per non pagare gli alimenti a mia moglie, avevo intestato casa e negozio a loro». Intanto girava i casinò del Nord con una certa frequenza. «Mi è andata bene fino al 1987. Quell’anno ho perso tutto. La mia compagna un giorno ha cambiato la serratura di casa e ha chiamato i carabinieri. L’avvocato mi disse di lasciare perdere. Era tutto a nome suo. Mi era rimasta l’auto, sono andato a dormire lì».A quasi 60 anni, Giulio Cesare trovò lavoro come imbianchino. «Giocavo quello che guadagnavo. Se penso a quegli anni mi ricordo come inebetito». Dopo una perdita robusta, altra fuga da Milano. «Era l’estate del 1993. Tornai a Firenze dopo anni. Chiamai una sorella con cui avevo sempre avuto buoni rapporti. Mi insultò. Non sapevo dove fossero finiti i miei figli. Mi resi finalmente conto che ero solo. Chiesi da mangiare alle suore di un convento vicino alla stazione. Lì scattò qualcosa dentro di me. Decisi che l’avrei fatta finita col gioco».Al ritorno a Milano, alla vigilia di Ferragosto, eccolo in coda all’Opera Cardinal Ferrari per il pranzo che l’istituzione milanese di assistenza ai senza dimora organizza quotidianamente ancora oggi. Poi le giornate al centro diurno, fino a quando, una sera, tornando alla sua auto, trovò la polizia. «Il fratello della mia compagna era un trafficante d’opere d’arte e le aveva lasciate nel negozio qualche anno prima. Mi incolparono e finii in cella. Ci misi sei mesi a dimostrare la mia innocenza». All’uscita Giulio tornò all’Opera. «È stato il periodo più bello della mia vita. Ho trovato lavoro e, dopo essere stato al dormitorio pubblico, ho avuto una casa popolare. Andavo il sabato e la domenica a fare il volontario». Oggi vive una vecchiaia economicamente tranquilla. E nelle giornate di festa dà ancora una mano. Ma pensa sempre ai suoi figli. «Non so più nulla di loro. Come biasimarli, li ho lasciati che erano ragazzi».
Stefania/TorinoLa lenta risalita dal disturbo mentaleLo sguardo di Stefania non si dimentica facilmente. Racconta l’inferno che ha dentro e che l’ha portata, giovanissima, sulla strada. Chi l’ha incontrata ricorda il disagio provocato dal suo sguardo, infuriato. Ma la sua storia dimostra che anche con un disturbo mentale si può uscire dal tunnel dell’emarginazione.Nata a Torino, in Barriera, è la più piccola della famiglia: padre, madre e cinque fra fratelli e sorelle. Le ragazze sono fuggite da casa molto giovani per sottrarsi al rapporto con il genitore, autoritario e violento, capace di picchiare tutte le donne di casa. Nel tempo, il conflitto è diventato insostenibile, mentre cominciava ad affiorare in Stefania un’instabilità emotiva e psicologica. A 28 anni vive in strada e sembra difficile recuperarla. La presenza di una ragazza così giovane sulle panchine delle stazioni o dei parchi pubblici allarma gli operatori dei servizi di strada che, dopo qualche tentativo serale finito in un nulla di fatto, la convincono a utilizzare i posti letto dei dormitori pubblici. Subito è palese la presenza di un forte disturbo mentale che, assieme ai terribili vissuti familiari, rende difficile e delicato l’aggancio. Entra nel dormitorio torinese a bassa soglia per l’accoglienza femminile, gestito dalla cooperativa «Progetto Tenda». Comincia un percorso di formazione in cui ottiene buoni risultati, inserimenti lavorativi e tirocini fallimentari, dolorosi e difficili percorsi di sostegno psicologico, medico e farmacologico. A un certo punto sparisce, per ricomparire un anno dopo. Le operatrici la ritrovano dilaniata dal tentativo di un rientro in famiglia. Stefania però ha ancora la forza di ricominciare daccapo. Il disturbo mentale è sempre più netto, ma stavolta trova equilibri che le permettono di misurarsi con il mondo esterno.Si avvia così un percorso di inserimento in una struttura di accoglienza femminile. Entra a far parte, anche se a tempo determinato, di un gruppo di lavoro flessibile e poco incline al giudizio verso le sue stranezze e suoi silenzi. È ancora in preda alle sue ossessioni e ha forti crisi, ma riesce a riprendere i contatti con la madre e tenta un riavvicinamento anche con i fratelli e le sorelle. Tuttavia, i vecchi rancori e, soprattutto, la povertà materiale e culturale sembrano ostacoli insormontabili. A fatica arriva il passaggio in appartamenti di ospitalità femminile, sempre condotti dalla cooperativa, dove può misurarsi, grazie a un sostegno più blando da parte degli operatori, con la gestione della quotidianità. Le sue difficoltà mentali non sono scomparse, ma si è attenuata la rabbia con cui era abituata a esprimere bisogni e richieste d’aiuto. Dopo qualche mese, arriva l’assegnazione di un appartamento di edilizia popolare. Oggi la solitudine e l’emarginazione provocate dal disturbo mentale si sono assottigliate. Stefania resiste, ha ancora la sua casa. Continua a seguire un percorso di sostegno psicologico. E chi l’ha incontrata racconta che il suo sguardo sembra più dolce.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: