venerdì 30 luglio 2010
Il premier sancisce la rottura con il presidente della Camera. E il Pdl avvia procedure disciplinari per i suoi fedelissimi. «Ma il governo non rischia». «Posizioni ormai incompatibili e non è neanche più garante». Ex di An verso un nuovo gruppo. Duro documento politico approvato dal vertice serale con solo tre voti contrari su trentasette. L’accusa del Cavaliere: ormai erano un partito nel partito. L’ex leader di An respinge l’invito a lasciare la sua poltrona: «La presidenza della Camera non è nella disponibilità del capo del governo». Brindisi nel gruppo del Pd: Bersani parla di crisi ormai aperta e chiede al presidente del Consiglio di presentarsi subito in Parlamento.
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La cornetta si abbassa e Silvio Berlusconi ripete, quasi meccanicamente, le ultime parole di quella telefonata che si è appena chiusa. Con una sola premessa, il nome dell’interlocutore: «Era Fedele Confalonieri. È d’accordo con me. Sì, anche lui è convinto che non ci sia altra strada che la rottura». Non c’è più tempo per evitare lo strappo. Per scongiurare la separazione. Il premier lo ripete in tutte le conversazioni più private. Con le stesse parole e con gli stessi toni. «Per mesi Fini ha devastato il suo governo, la sua maggioranza, il suo partito. Ora è tardi per fermarsi. Ora c’è un documento che sancisce, con parole chiare, l’incompatibilità politica». Ripete quella parola Berlusconi. Quasi la sillaba: in-com-pa-ti-bi-li-tà. Passano le ore e a metà pomeriggio Sandro Bondi stringe la penna e scrive il documento. C’è la censura politica a Gianfranco Fini. C’è l’apertura di procedimento disciplinare verso Italo Bocchino, Fabio Granata e Carmelo Briguglio che prevede il loro deferimento al Collegio dei probiviri per valutarne la sospensione dal Pdl se non addirittura l’espulsione. Si passa da un vertice a un’altro. A tarda sera Berlusconi, in piedi davanti ai 37 membri dell’ufficio di presidenza, conferma la fine della storia: «Non posso accettare una lenta consunzione. Legalità e garantismo sono principi di fondo del Pdl e se non sono principi comuni abbiamo il dovere di prendere strade diverse». C’è rumore a Palazzo Grazioli. I finiani presenti dicono no, ma la linea è decisa: «L’ufficio di Presidenza considera le posizioni dell’onorevole Fini assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà, con gli impegni assunti con gli elettori e con l’attività politica». È la fine. Berlusconi ha chiare le mosse di Fini. Sa che è pronto per dare vita a nuovi gruppi parlamentari ma sembra comunque sereno, determinato. E deciso a fare totale chiarezza. Anche in prospettiva. Perchè «quando si tornerà a votare noi e loro non saremo mai più alleati». Sono ore di tensione, ma anche di chiarezza. A tarda sera Berlusconi parla davanti alle telecamere e la linea è ancora più dura. «Viene meno la fiducia nel ruolo di garanzia del presidente della Camera», ripete il premier. È l’attacco finale. Quello più duro. I cronisti vogliono capire e la domanda è una sola: Fini dovrà lasciare la guida dell’assemblea di Montecitorio? Berlusconi ora passa la parola a deputati e senatori: «Lasciamo che siano loro ad assumere iniziative a riguardo». Berlusconi scandisce uno dopo l’altro i suoi no. No a Fini e alla sua «opposizione permanente». No a chi per mesi ha costruito «un partito nel partito». Il premier alza la voce: «Non sono più disposto a pagare il prezzo della divisione. Non sopporto più che i giocatori litighino negli spogliatoi». E allora via anche i ministri finiani? Ora il Cavaliere è meno drastico di quanto lo fosse stato negli sfoghi più privati. «Questa decisione sarà assunta nella sede del governo ma per quanto mi riguarda non ho nessuna difficoltà a continuare una collaborazione con validi ministri», spiega. Si vogliono strappare a Fini uomini di governo e uomini di partito. Ma è inevitabile riflettere sui numeri. Sui 34 deputati pronti a dare vita a un nuovo gruppo parlamentare. Berlusconi capisce i rischi, intravede i pericoli di una fase di instabilità e il fantasma di un governo istituzionale magari a guida Tremonti, ma ora non confessa le paure. «Abbiamo una maggioranza salda, il governo non è a rischio», ripete prima di lasciare Palazzo Grazioli e di scandire l’ultima accusa contro Fini: «Mai prima d’ora è avvenuto che il presidente della Camera assumesse un ruolo così sfacciatamente politico e annullasse la propria imparzialità istituzionale».
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