giovedì 13 agosto 2020
Il solo precedente in materia riguarda le vaccinazioni pediatriche, legate però alla frequenza scolastica. Sarà possibile introdurre sanzioni o limiti alle attività per chi non si immunizza?
Sono 44 gli studi in corso nel mondo sui vaccini, 15 dei quali in Cina. In Italia se ne stanno conducendo due

Sono 44 gli studi in corso nel mondo sui vaccini, 15 dei quali in Cina. In Italia se ne stanno conducendo due - Ansa/Epa

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«Se quello delle vaccinazioni fosse riducibile a problema strettamente tecnico-scientifico, sarebbero sufficienti gli ordinari criteri di etica e di deontologia medica per gestirne le dimensioni problematiche sul piano delle scelte a rilevanza morale». È un passaggio del corposo documento Le vaccinazioni, elaborato dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel 1995; una pennellata introduttiva perfetta della complessità legata alle vaccinazioni, che va ben oltre le pur grandi questioni che affrontano in laboratorio gli addetti ai lavori. È una delle problematiche etiche sempre aperte, come ha mostrato lo stesso Comitato in una mozione dell’aprile 2015 L’importanza delle vaccinazioni, contestualizzata nella situazione italiana di quel periodo, quando il dibattito riguardava l’obbligo vaccinale in età pediatrica.

Giocoforza la questione è tornata centrale con Covid-19, promettendo di restare in pole position per molti mesi a venire: non sappiamo ancora se e quando ci sarà un vaccino ma è già accesa la discussione sulle sperimentazioni in corso – benzina sul fuoco l’annuncio di Putin del suo Sputnik V – e sulle tante problematiche che inevitabilmente si aprono, a partire dalla polemica sulla eventuale obbligatorietà, aperta dalle dichiarazioni contrapposte del premier Conte (contrario) e di politici come Matteo Renzi (favorevole).

Tanti dei problemi che stanno emergendo sono diversi da quelli affrontati in tempi ante-pandemia. Innanzitutto, a oggi non sappiamo ancora se avremo un vaccino sicuro ed efficace, e tantomeno quando. Non dobbiamo mai stancarci di ripetere che il vaccino è preventivo, cioè impedisce di ammalarsi; poi ovviamente ci possono essere diverse possibili terapie per curarsi una volta ammalati, e guarire, o anche per convivere con la malattia impedendone lo sviluppo letale, come avviene per l’Hiv.

Adesso che siamo dentro una pandemia, la differenza abissale fra queste diverse possibilità dovrebbe essere chiara a chiunque: per le conseguenze sulla salute dei singoli, della collettività, dell’organizzazione del sistema sanitario e degli investimenti necessari, diversi a seconda della situazione che abbiamo davanti, e quindi delle conseguenze economiche e sociali per il mondo intero. E dovrebbe essere evidente a tutti che la strada maestra per liberarci da Covid-19 è un vaccino efficace e sicuro, fermo restando i nodi ancora da sciogliere riguardo il problema dell’immunità e della sua durata.

Il condizionale è d’obbligo, perché appena passata la grande paura sono rifiorite le leggende no-vax, nelle tantissime versioni che oggi quel mondo esprime, a cui cercare di rispondere equivale spesso ad esporsi ad aggressioni verbali, inversamente proporzionali alla ragionevolezza delle tesi negazioniste esposte. Una situazione preoccupante, da non sottovalutare. Ma presumiamo l’esito auspicato: entro l’anno viene autorizzata la somministrazione di un vaccino sicuro ed efficace. Da diverse fonti istituzionali è già stato detto che le prime a riceverlo saranno le categorie più vulnerabili all’attacco virale, cioè gli anziani, insieme agli operatori sanitari e a coloro che lavorano nei "servizi essenziali". Tutto chiaro? Non proprio.

Prima di tutto bisogna vedere se gli appartenenti a queste categorie vorranno vaccinarsi: una questione non di poco conto, visto che per Covid-19 non stiamo parlando dell’ambito pediatrico, come invece abbiamo fatto finora con minori che non possono esprimere il proprio consenso e sono sottoposti all’obbligo scolastico. Riguardo a questi ultimi, bisognerebbe poi distinguere per età – neonati e diciassettenni sono minori diversi, ovviamente – e va ricordato che l’unica conoscenza certa per questa fascia di popolazione è la minore vulnerabilità all’attacco virale di Sars-Cov-2.

In parole povere, i minori si ammalano e muoiono meno degli altri. Non ci sono certezze sul loro ruolo come diffusori del contagio, e tanto meno sappiamo degli effetti a lungo termine del virus, ma sicuramente dal punto di vista della salute personale i singoli minori, a breve termine, hanno meno probabilità di essere danneggiati dal nuovo coronavirus. E quindi, a oggi, sono quelli che hanno meno bisogno del vaccino.

Ma cosa fare se una persona che ricade nella categoria "anziano" rifiuta liberamente la vaccinazione? È plausibile imporre la vaccinazione obbligatoriamente, per legge, a persone maggiorenni e consapevoli delle scelte sanitarie personali? E se sì, quali condizioni debbono verificarsi? Se poi si decidesse in questa direzione, che tipo di obbligo imporre: secco e diretto? Solo agli istituzionalizzati o per fasce di età? Magari con sanzioni di tipo amministrativo, se non addirittura penali? Oppure si sceglie di porre limitazioni all’accesso ad alcuni spazi pubblici a chi non vuole vaccinarsi? Forme di incentivazione? E nel caso, quali?

In altre parole c’è da chiedersi se è possibile parlare di obbligo vaccinale per larghe fette di popolazione, e in che termini. E se è vero che in nome di un’emergenza sanitaria le autorità governative possono adottare provvedimenti straordinari, come si stabilisce la soglia di straordinarietà? Quali sono i confini dell’emergenza sanitaria che possono giustificare un provvedimento così importante nella sfera personale?

Ricordiamo che per le vaccinazioni in età pediatrica si era individuato nel 95% la copertura vaccinale da raggiungere, necessaria per l’immunità di gregge, ossia per impedire ai diversi virus di circolare fra la popolazione e infettare coloro che per motivi sanitari non possono vaccinarsi. Era quello l’indicatore da tenere sotto controllo anche per valutare l’adesione alle vaccinazioni. È evidente che anche per Covid-19 andranno stabiliti criteri per decidere le soglie oltre le quali far eventualmente scattare misure di emergenza.

Vanno poi individuati i lavoratori dei "servizi essenziali" che dovrebbero avere la priorità nelle vaccinazioni, e per i quali si dovrebbe discutere sulla obbligatorietà o meno: durante il lockdown abbiamo scoperto, ad esempio, l’importanza della filiera alimentare, dai produttori delle materie prime al personale dei supermercati, a partire da chi sta alla cassa, questi ultimi molto esposti al pubblico, passando per il comparto della veterinaria, fino a tutti i servizi che sono restati sempre aperti nei mesi scorsi. Si pone poi il problema delle scuole di ogni ordine e grado, dalle materne all’università, per insegnanti e personale ausiliario. È pensabile prevedere una obbligatorietà generalizzata, almeno per queste categorie? Con quali priorità? E quali provvedimenti adottare in caso di rifiuto?

Ci sono poi i cittadini stranieri, da cui dipendiamo fortemente sia per il turismo che in tanti ambiti lavorativi, a prescindere dal fatto che siano o meno extracomunitari. Una volta distribuito il vaccino, sarà possibile regolare gli ingressi, sia lavorativi che turistici, in base alle vaccinazioni effettuate o meno? È pensabile vietare l’ingresso in Italia a chi ha rifiutato di vaccinarsi? E cosa fare con le persone prive di documenti che le autorizzano a rimanere in Italia?

Intanto dovremo affrontare la problematica delle vaccinazioni per l’influenza: bisogna impedire che i sintomi influenzali confondano le diagnosi di Covid-19, intasando medici di base e servizi ospedalieri, rischiando di imporre quarantene a chi ha una temperatura di 38 gradi per la febbre stagionale, bloccando servizi pubblici e privati. Chi ha figli in età scolare, ad esempio, sa quanto possono essere decimate le classi in inverno. In tempo di pandemia che si fa: si chiude tutto per sicurezza?

Non si tratta di decisioni meramente sanitarie e politiche, ma principalmente etiche: sono in ballo giustizia ed equità nell’accesso alle risorse, ma anche princìpi come solidarietà e bene comune. Sono scelte innanzitutto etiche quelle che i governi sono chiamati a compiere in questo campo, e mai come adesso appare debole e insufficiente quel principio di autodeterminazione su cui tanto si è combattuto in questi decenni. Ma soprattutto sono scelte che devono essere fatte nelle giuste sedi istituzionali, a partire da quella parlamentare, nella massima trasparenza, con il più ampio coinvolgimento e la più vasta condivisione possibile fra tutte le parti interessate, perché una reale e fattiva partecipazione democratica non venga mai meno.

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