venerdì 14 aprile 2017
Il cardinale Menichelli, assistente dei medici cattolici, sul nuovo caso di suicidio assistito: «Abbiamo desacralizzato la vita sino a questo punto?». Nella legge sulle Dat «aspetti da correggere»
Il cardinale Edoardo Menichelli, assistente dei medici cattolici (foto Siciliani)

Il cardinale Edoardo Menichelli, assistente dei medici cattolici (foto Siciliani)

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Di quale legge ha bisogno una società nella quale la tecnomedicina promette l’estensione della vita? Non è davvero più sufficiente il patto fiduciario tra paziente e medico? Le domande che incalzano chi segue la complessa vicenda parlamentare della legge sulle «Disposizioni anticipate di trattamento » – che riprenderà mercoledì 19 – coinvolgono il cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona- Osimo, anche come assistente nazionale dei medici cattolici. La notizia della morte in Svizzera per suicidio assistito di Davide Trentini, il 53enne malato di sclerosi multipla, non fa che aggiungere altri interrogativi. «Dico la verità – sospira il cardinale –, quando l’ho appreso mi sono messo in ginocchio. Come cristiani abbiamo il dovere di annunciare a una società tribolata che dentro il mistero così duro del patire e del morire c’è il sepolcro vuoto, la speranza. Non mi sento di entrare nel labirinto di una coscienza, solo Dio può farlo. Ma mi domando com’è possibile che siamo arrivati a desacralizzare la vita sino a questo limite».

È necessaria una legge sul fine vita?

«Non so giudicarlo, indubbiamente contiene difficoltà oggettive che riguardano tutto il mistero del vivere e del soffrire. Siamo in presenza di una sorta di esondazione della politica, che sa di non poter fare nulla sulla vita e sulla morte ma pensa di fare qualcosa che determini il nascere e il morire. E così ci si adopera per far entrare in una legge un ambito che non le appartiene. Purtroppo rischiano di saltare due realtà fondamentali: l’inviolabilità della vita insieme alla solennità e alla drammaticità della morte».

Cosa ispira questa legge?

«Siamo in presenza di una cultura che sembra aver snaturato la percezione della vita, considerandola solo se felice, efficiente, produttiva, ma che è 'malata' di privatismo e che si può sintetizzare in una formula ben nota: la vita è mia e ne faccio quel che mi pare. È scomparsa l’idea del dono ricevuto, sostituita dalla convinzione che sia una proprietà. È la logica dell’autodeterminazione senza limiti».

Ma di fronte ai casi di sofferenza estrema cosa si può fare?

«Situazioni di chi soffre al punto da chiedere la morte talvolta producono un sentimento di pietà e solidarietà alla rovescia, che possiamo comprendere ma non approvare. Quando c’è l’impotenza della cura bisogna che cresca la potenza dell’amore che accompagna. Occorre la 'cura della carezza'».

Come valuta la definizione, inserita nella legge, della nutrizione assistita come terapia?

«È un problema che può portare lontano, perché l’alimentazione in quanto tale è indispensabile e se la si considera come terapia vuol dire che quando 'non c’è più nulla da fare' la si potrà togliere anche se è semplicemente un sostegno e una consolazione elementare. Non possiamo collocare nutrizione e idratazione al di fuori delle cure di base».

Le Disposizioni anticipate di trattamento intervengono sul delicato rapporto tra medico e paziente. Come va regolata questa relazione?

«Parlando con molti medici mi sono sentito manifestare il disagio di trovarsi davanti a una mina gettata dentro la professione. Alterando l’equilibrio tra medico e paziente viene smontata una relazione decisiva, con il medico trasformato in funzionario utile per ottenere uno scopo. Salta l’architrave della relazione: la cura infatti non è orientata solo alla guarigione ma porta in sé altri aspetti relazionali, come la vicinanza, la comprensione, l’ascolto... E poi, non si è solidali con qualcuno per farlo morire. Nella legge c’è un piccolo tranello, una specie di lusinga, là dove si depenalizza la condotta del medico che ha assecondato le volontà del paziente. Un passaggio che può rivelarsi molto pericoloso».

Ci sono istituzioni sanitarie cattoliche che sarebbero costrette a 'staccare la spina'. Come si può fare?

«È un pericolo reale e grave, e non riguarda solo le realtà d’ispirazione cristiana. Va trovata una formulazione che non sottometta gli ospedali alle volontà del paziente e introdurre quella che definirei obiezione di coscienza della struttura».

Come evitare che si faccia largo la 'cultura dello scarto' nella nostra sanità?

«Stiamo entrando senza rendercene conto nella 'medicina del desiderio', lontana dal vero senso del curare. L’accanimento terapeutico per allungare la vita convive con l’appello per abbreviarla a piacimento. È all’opera una mentalità che vuol piegare i mezzi a vantaggio del desiderio individuale, ma una struttura sanitaria è per sua natura finalizzata a curare, non a far morire. Direi che una riflessione su questo punto ora s’impone».

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