giovedì 7 ottobre 2010
Il Tribunale di Firenze chiede alla Consulta di pronunciarsi sul divieto di fecondazione eterologa. Accogliendo il ricorso di una coppia sterile, appoggiata dai radicali, i giudici hanno nuovamente impugnato la norma sulla procreazione assistita. Scienza & Vita, Forum delle famiglie e Movimento per la vita denunciano il nuovo assalto alla sovranità popolare, espressa dal Parlamento e nei referendum del 2005 Roccella: si vuole tornare al far west
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Un giudice del tribunale di Firenze ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità della legge 40, in particolare l’ultimo comma dell’articolo 4 che prevede il divieto della fecondazione eterologa, ossia quella effettuata in vitro con almeno uno dei due gameti esterni alla coppia. Il tribunale ha accolto la domanda di una coppia (lei 38 anni, lui 34) nella quale il marito è affetto da sterilità. Dopo aver tentato la fecondazione eterologa in Svizzera e Repubblica ceca («Abbiamo tentato per due anni, sei volte, spendendo 15 mila euro, ma non è servito a nulla», ha dichiarato la donna) si sono rivolti all’associazione radicale Luca Coscioni, e assistiti dai legali Gianni Baldini e Filomena Gallo (specializzati in ricorsi e campagne pubbliche contro la legge 40) e hanno presentato ricorso al giudice per poter accedere alla tecnica oggi vietata dalla normativa italiana.La rimessione alla Consulta, spiega Baldini, si fonda sul fatto che «l’articolo 4 lede i principi di uguaglianza e i diritti sanciti dalla Costituzione, e inoltre contraddice una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha già condannato l’Austria proprio per il divieto della fecondazione eterologa, che contraddice i diritti fondamentali dell’uomo». Gli articoli della Costituzione che si presumono violati sono il 3 e l’11, relativi al diritto di non discriminazione e sul recepimento del diritto comunitario. Il riferimento è alla vicenda austriaca, che però è citata in maniera inesatta. La norma in vigore a Vienna, infatti, è del tutto differente da quella italiana. Ma non basta: la decisione assunta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo è stata impugnata dallo Stato austriaco, e la questione risulta tuttora pendente.Oltre ai giudizi della Corte sull’ammissibilità del referendum abrogativo, questa è la quarta volta che la legge 40 finisce davanti ai giudici costituzionali, e – a sentire l’avvocato Gallo non sarà nemmeno l’ultima («Affronteremo anche il divieto di ricerca scientifica sugli embrioni abbandonati», ha annunciato ieri, ma già altre 5 coppie sono in attesa di un pronunciamento nei Tribunali di Bologna, Milano e Catania). L’ultima pronuncia della Corte costituzionale è l’ordinanza 97/10, con cui la Consulta ha ritenuto manifestamente inammissibili le questioni sollevate da due giudici di Milano, lasciando così inalterata la disciplina precedente. Questa, tuttavia, era stata già oggetto di censura da parte della stessa Corte, che l’aveva esaminata su ricorso del Tar del Lazio. Infatti, il Tar aveva modificato le linee guida dell’allora ministro Sirchia eliminando la prescrizione di compiere sull’embrione indagini esclusivamente «osservazionali». Con la stessa sentenza il Tar sollevò la questione di legittimità costituzionale della legge. Questo ricorso ha portato alla famosa sentenza 151 del 1° aprile 2009, con cui la Corte ha modificato la legge 40 eliminando il numero massimo di tre embrioni generabili per ciclo, da impiantare contemporaneamente, dichiarando incostituzionali le parole «a un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» contenute nell’articolo 14. È caduto così il divieto di fecondare più di tre embrioni per ciclo. Inoltre, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14 «nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna».Nel 2006, invece, con l’ordinanza 369 la Consulta dichiarava la «manifesta inammissibilità» della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13: per la Corte il divieto di diagnosi pre-impianto è «desumibile anche da altri articoli della stessa legge, non impugnati, nonché dall’interpretazione dell’intero testo legislativo alla luce dei suoi criteri ispiratori».
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