martedì 4 dicembre 2012
​La Corte costituzionale ha accolto il ricorso del Presidente della Repubblica sul conflitto con la Procura di Palermo: quelle intercettazioni dovevano essere distrutte.
INTERVISTA Mirabelli: contrasto risolto con linearità di Gianni Santamaria
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La Corte Costituzionale dà ragione al Capo dello Stato. E boccia la Procura di Palermo. Le intercettazioni telefoniche tra l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino e Giorgio Napolitano, nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia, andavano distrutte. Punto e basta. Non toccava ai magistrati palermitani «valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica» né «omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione», ai «sensi dell’articolo 271, terzo comma, Cpp e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto». Né, infine, prima dell’eventuale distruzione, vanno sottoposte al contraddittorio tra le parti (accusa, difesa e parte civile). Una decisione che, come si apprende in ambienti del Quirinale, Napolitano «ha atteso serenamente e ha accolto con rispetto», attendendo di conoscere il dispositivo.Il comunicato stampa emesso dalla Corte dopo quattro ore di Camera di consiglio è di appena sette righe ma sembra già una "lezione" di diritto. Certo ora andranno lette le motivazioni, e non è da escludere che i giudici costituzionali pongano al Parlamento, come fatto altre volte, la necessità di "assestare" le norme in materia. Ma quelle sette righe dicono che la Consulta sposa in pieno la linea del Quirinale e respinge tutti gli argomenti posti dalla Procura. I magistrati isolani, infatti, avevano difeso la proprio decisione di non distruggere immediatamente le intercettazioni soprattutto sulla base della ritenuta loro competenza a decidere e anche della necessità di porre la questione davanti al gip e, quindi, delle altri parti in causa. Il che, lamentava il "Colle", le avrebbe di fatto rese pubbliche, rendendo vana un’eventuale successiva distruzione.Posizioni che in mattinata erano state illustrate dall’Avvocato generale dello Stato, Michele Giuseppe Dipace illustrando il motivo dei ricorso del Capo dello Stato. Il conflitto, aveva spiegato, è stato «un passo obbligato» e «tuttora la situazione non è mutata e persiste l’omissione della richiesta al gip di distruzione delle intercettazioni». Aggiungendo che «la Procura di Palermo ha trattato queste intercettazioni come normali intercettazioni, non ha tenuto presente il fatto che siano illegittime». Con l’aggravante che l’udienza stralcio di fronte al gip e alla presenza delle parti, «esponeva al rischio che quelle comunicazioni fossero rese pubbliche» violando «il principio della loro riservatezza». Esattamente quanto affermato dalla Consulta. Tesi respinte dall’avvocato Alessandro Pace che rappresentava la Procura di Palermo. Ipotizzando, quasi con una provocazione, una via d’uscita. «Una possibile soluzione lineare» del nodo intercettazioni «potrebbe essere la richiesta dell’apposizione del segreto di stato da parte del Presidente della repubblica al Presidente del consiglio». Ma le decisione della Corte è stata molto più lineare.
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