mercoledì 19 ottobre 2016
​Prosegue l'inchiesta sul lavoro in corsia. La giornata di Valentina, 33 anni, dal 2006 in chirurgia onocologica all'ospedale di Torino. «Una professione così non la fai solo per lo stipendio».
L'infermiera: qui si fanno turni massacranti
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Raccoglie la cascata di ricci rossi, indossa il camice e irrompe sorridendo nella prima delle quattro camere che toccheranno a lei: «Come va oggi? ». Valentina Ariu, 33 anni, infermiera da dieci, cominciò a lavorare proprio qui, nel reparto chirurgia generale e oncologica addominale dell’ospedale Mauriziano a Torino. «Erano altri tempi», commenta, «tre mesi dopo la laurea ero già assunta, tramite concorso. Oggi i concorsi non li fanno manco più perché non si assume, eppure ce ne sarebbe tanto bisogno». In quello che Valentina definisce «il lavoro più bello del mondo» i ritmi sono al limite del sopportabile, specie se si opera con coscienza: «Non siamo in fabbrica, non maneggiamo oggetti inanimati, abbiamo a che fare con persone che hanno dietro una vita e la mettono nelle tue mani. Sono pazienti con malattie importanti, dunque ad ammalarsi è l’intera famiglia, è tutto un sistema che diventa fragile. Alla fine del turno siamo a pezzi, più nella mente che nel fisico, a casa ancora ripenso 'avrò fatto tutto nel miglior modo possibile?'. Non si tratta di mettere flebo o sondini, ma di fare vere e proprie trasfusioni di forza e speranza a persone che da te si aspettano moltissimo». In chirurgia oncologica i ricoverati sono 35 e a volte non c’è il tempo per mangiare. Sono pazienti non facili, hanno subìto operazioni pesanti e tagli addominali invasivi, hanno sonde e drenaggi, chiamano per chiedere sollievo dal dolore o girarsi nel letto: 35 pazienti fissi, contro 18 infermieri che invece ruotano su tre turni, la mattina dalle 7 alle 15, il pomeriggio dalle 15 fino alle 23, la notte dalle 23 fino alle 7 del giorno successivo. Si va a letto quando il cambio lo consente. Turni ferrei già decisi il mese prima, «ma tra noi siamo molto uniti e di fronte a un imprevisto ci sostituiamo. Probabilmente è il dover affrontare storie così dure che ci ha resi amici». Le camere sono a tre letti, solo una stanzetta in fondo al corridoio, l’ultima, è singola: «Lì curiamo il paziente in fase terminale quando non c’è la possibilità di farlo tornare a casa. È emblematica questa posizione…».Basta una giornata in ospedale con lei per toccare con mano ciò che ha chiarito subito: «Un lavoro così non lo fai per il 27 del mese». Lei lo ha sognato fin da bambina, poi si è laureata in Scienze infermieristiche. Ma nessuna scuola insegna l’empatia che ha appreso nelle notti e nei giorni dai pazienti stessi: «Mai far pesare una chiamata, nessun campanello è mai inutile, se mi avvicino qualcosa la chiedono sempre». E poi il bisogno di capire cosa succede, di sapere sempre cosa altri stanno facendo su di noi, «sono loro i protagonisti della vita che ti hanno affidato. A volte non ho voglia di sorridere, mi faccio violenza, ma loro pendono da quel sorriso. Anche il contatto fisico è fondamentale, toccare la mano del paziente mente gli si parla agisce come un farmaco, perciò anche se ho fretta rallento ». Loro sentono se in quella mano c’è partecipazione o solo mestiere. Dopo dieci anni tra i malati oncologici, Valentina ha imparato che «se è accudito con amore e riceve le giuste cure palliative, nessuno chiede di morire. Chi parla di eutanasia non ha passato un solo giorno con loro». Piuttosto, la missione dell’infermiere comprende l’accompagnare, la capacità di cogliere i segnali, di costruire pazientemente «quel rapporto di fiducia senza il quale non riesci a lavorare». Per fare tutto questo ci vorrebbe una squadra di infermieri, un rapporto uno a uno, invece i conti sono presto fatti: la mattina ogni infermiere ha in carico 12 pazienti, il pomeriggio 18, «la notte addirittura tutti e 35, perché chi è di turno è solo». Ed è la notte che le paure aumentano e gli anziani si disorientano. Mentre i giovani sono difficili sempre, «sono arrabbiati con la malattia»... Ma poi ci sono «i successi», e Valentina preferisce mostrarci quelli. Come l’uomo, pallido, che cammina in corridoio verso di noi tra due fisioterapisti, e sorride a tutti: «Operato a fegato e intestino, dopo un infarto è rimasto incosciente, sembrava perduto, invece da due mesi si è ripreso dal punto di vista neurologico e motorio e ora continua a salutare chiunque incontri: il fatto di poter ancora uscire dalla stanza e vedere la vita che c’è fuori, per lui è una gioia. La malattia cambia le persone, si progetta a breve termine e tutto diventa più intenso. Anche questo però non lo impari a scuola».
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