lunedì 21 settembre 2015
Italia caduta al 5° posto nel mondo come meta. All’estero più introiti.
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La polemica sul Colosseo chiuso, oltre che sui diritti sindacali, ha riacceso i riflettori anche sulle tante, troppe opportunità sprecate dal turismo "all’italiana". Perché, in fondo, la mossa blitz del governo - per certi versi discutibile - si motiva col fatto che il turismo è una delle maggiori industrie nazionali (indotto compreso, vale all’incirca oltre 160 miliardi di euro, un decimo del nostro Prodotto interno lordo) e che sarà sempre più una fonte di reddito nel mondo (già oggi il settore cresce a una velocità - in media il 5% l’anno - nettamente superiore all’intera economia mondiale). Un bene da noi 'ereditato' e da tutelare, insomma. Come troppo spesso non si è fatto, a livello di strategia politica come nella mentalità degli addetti ai lavori. E rispetto al quale troppo spesso ci siamo fatti sfilare sotto il naso delle  chances  storiche che avrebbero potuto garantire ricchezza e posti di lavoro. Quanti sanno, a esempio, che negli anni Ottanta la Walt Disney Production aveva  messo gli occhi sull’area Italsider di Bagnoli, vicino Napoli, per insediare il suo primo parco divertimenti  in Europa? Era in lizza con Barcellona e la Francia, e preferita per il clima migliore. Ma fra mancate risposte politiche e lungaggini burocratiche gli eredi di Topolino persero la pazienza  e così Eurodisney sorse a Parigi, traghettando Oltralpe 15 milioni di visitatori l’anno, oltre il doppio dei Musei Vaticani.  Questo e tanti altri spunti sono al centro di un’inchiesta di Lorenzo Salvia, pescarese, giornalista del  Corriere della sera e autore del saggio  Resort Italia (Marsilio, euro 17). Fra siti che cadono a pezzi e altri ogni tanto chiusi per sciopero (certo, anche la Tour Eiffel rimase serrata per 3 giorni di fila a maggio, ma fu un evento eccezionale) ci sarà un perché, d’altronde, se negli anni l’Italia è scesa al 5° posto come destinazione per numero di visitatori e per spesa dei turisti internazionali.

A stilare la classifica è stata di recente in un’indagine la Banca d’Italia, sulla base di dati Unwto, l’organismo mondiale del turismo. Siamo superati da Usa e Cina,  ma anche da Francia e Spagna che una volta erano dietro di noi. E siamo tallonati persino dalla Thailandia, che ci segue ad appena un miliardo di euro (33 contro 32) come spesa annua dei turisti stranieri. Quasi un paradosso se si pensa alla ben diversa dotazione di bellezze non tanto naturali quanto storico- architettoniche, a partire dal primato di siti Unesco. Stiamo andando indietro nel mondo proprio quando crescono in modo impetuoso i flussi turistici. 

Il viaggio di Salvia parte da una domanda resa attuale proprio dal caso di venerdì: «Perché Abu Dhabi si prepara alla fine del petrolio costruendo il museo più grande del mondo e noi chiudiamo il Colosseo, visitato da oltre 5 milioni di persone l’anno, alle 4 e 30 del pomeriggio?» (solo d’estate chiude  più tardi, ma non esiste anche l’illuminazione?). Altra vicenda eloquente, questa di Abu Dhabi, anche sull’incapacità di acquisire risorse con cui gestire poi il nostro patrimonio.

L’emirato sta progettando anche in vista dell’Expo di Dubai 2020 - un enorme polo culturale sull’isola di Saadiyat, che ospiterà le sezioni dei principali musei mondiali. Il peggio, però, è che potevamo esserci anche noi. Ma non ci siamo. Furono presi contatti con gli Uffizi di Firenze, poi - forse anche per una certa nostra visione 'elitaria' - non se ne fece nulla. Risultato: gli arabi pagheranno al Louvre 525 milioni di euro per l’uso del marchio più altri 720 per l’affitto delle opere negli anni (e gli ospiti magari decideranno di andare in Francia), a noi niente. E poi non si trovano i soldi per gli arretrati ai lavoratori... Risorse che si perdono e risorse (interne) che non si valorizzano. Anche per errori di marketing. La città di Pippi Calzelunghe, Vimmerby, vicino a Stoccolma, attira più visitatori della Collodi del più celebre Pinocchio, peraltro a due passi dalla bellissima Lucca. «Per non parlare di Ostia antica - prosegue Salvia –, un mio pallino. Potrebbe essere una piccola Pompei: oggi la vedono solo 330mila persone, ma se fosse meglio collegata a Roma, magari attraverso una suggestiva via d’acqua come era nell’antichità, potrebbe diventare una sorta di Fori-bis». E vogliamo dire di Villa Adriana, vicino Tivoli? Un simile gioiello è 'precipitato' dal 14° posto nel 2003 tra i luoghi più visitati (322mila ospiti) agli appena 207mila del 2013.  Accanto alle realtà note, vi sono poi tante potenzialità 'sommerse': a Sibari, in Calabria, gli scavi hanno portato alla luce solo la metà della città della Magna Grecia, il resto è ancora sotto terra. Per finire col paradosso dei nostri beni che sono meglio impiegati all’estero: con gli 'avanzi di magazzino' di Pompei (prestati peraltro a titolo gratuito), gli inglesi hanno fatto una mostra e, in 6 mesi, hanno avuto 600mila visitatori, mentre gli scavi veri e propri in un semestre staccano 'solo' circa un milione di biglietti. E c’è il Grand Palais di Parigi, che ha fatto il primato con la mostra su Augusto, laddove il mausoleo dell’imperatore 'giace' pressoché abbandonato al centro di una piazza romana.  Un elenco di occasioni perdute, per un incrocio di fattori: sciatteria, snobismo culturale, incompetenza, scarso spirito manageriale. Ci vorrebbero più fondi, in un Paese che destina alla cultura meno dell’1% del Pil. Accanto al classico mecenatismo e al da poco introdotto (dal ministro Franceschini)  art bonus fiscale, la via indicata da Salvia (e da altri) è quella delle concessioni con i privati, ancora poco praticate. Da noi mentre a Londra, al British, alla Tate, al Victoria and Albert Museum è possibile, dopo la chiusura al pubblico, affittare sale per eventi a pagamento. Perché i monumenti chiusi non servono a nessuno. Nemmeno ai lavoratori.

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