giovedì 28 agosto 2014
​Pedagogisti e psicoterapeuti: così, nelle famiglie sempre meno numerose, la competizione supera la solidarietà.
Fecondità in calo anche tra gli stranieri
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Dal bambino-tiranno alla società fraterna. Sembra un passaggio scontato nelle famiglie numerose quando dai giochi agli abiti tutto è condiviso tra fratelli, compreso l’affetto e le attenzioni degli adulti. Ma in una società che si adegua velocemente alla dinamica del figlio unico – quando non sceglie di perseguire la strada del no kid – a perdere non è solo la famiglia che per i più svariati motivi fa meno bimbi di quelli che desidera. L’impoverimento in generale è nelle relazioni e nell’attitudine alla reciprocità, nel sentirsi più 'io' nel mondo che non 'noi' su questa terra. Soprattutto per quei bambini principi in un regno di grandi, che su quel fagottino ripongono tutto, dalle ansie alle attese. A sostenerlo sono pedagogisti e psicoterapeuti dell’età evolutiva che per la famiglia chiedono maggiori attenzioni nelle politiche d’accompagnamento alla genitorialità. Aiuto reciproco, dinamiche orizzontali, esercizio alla solidarietà piuttosto che alla competitività, inoltre, diventano i modelli educativi da perseguire per abituare i bambini alla vita futura. Economici, lavorativi, sociali, età avanzata del primo parto: le ragioni che hanno fatto cadere l’Italia nell’inverno demografico sono tante. Le dimissioni in bianco, poi, sono solo uno dei campanelli d’allarme di una collettività che non agevola la maternità. Lo scorso anno nel nostro Paese si è avuto il record negativo di nascite, 514mila, e il numero di bimbi medi per donna è sceso a 1,39. A preoccupare è anche l’aumento del 10% in dieci anni delle coppie senza figli - oggi al 31% - che rende il nostro Paese il primo in Europa per numero di coniugi childfree. Sembra che si sia persa, insomma, quella capacità generativa che è libertà e dono, non corda che avvinghia. Sempre meno bambini, così, possono fare esperienza delle «relazioni insostituibili tra fratelli», che sono invece una «straordinaria palestra generazionale » secondo il pedagogista Domenico Simeone, perché li mette precocemente a contatto con l’alterità. Con fratelli e sorelle, difatti, s’instaura un rapporto in cui «si attivano progetti di reciprocità educativa» – spiega il docente della Cattolica – e s’impara anche «a cpire che non si è l’unico oggetto di amore, ma che anzi l’amore deve e può essere condiviso». I figli unici, al contrario, spesso non hanno opportunità di confronto e rimangono al centro delle dinamiche degli adulti «senza poter sviluppare le relazioni orizzontali», aggiunge Simeone. Certo, il rapporto con i grandi è fondamentale, tanto quanto che i più piccoli «condividano esperienze e sperimentino capacità» con altri bambini, anche se questo significa – ammette – affrontare persino frustrazioni «che comunque fanno parte della fatica di crescere ». Come fare ora in case con figli unici? Si può iniziare creando «opportunità di relazioni con altre famiglie con figli della stessa età», ipotizza l’esperto in pedagogia della vita, abitando non solo gli appartamenti, ma «le piazze e i luoghi di socializzazione». Poi, però, è necessario riprendere la dinamica della «comunità che forma», visto che l’educazione non è un fatto privato, ma assunzione di responsabilità partecipata dentro e fuori casa.  Oggi tuttavia in nuclei familiari sempre più ridotti, il bambino spesso vive una dimensione dell’io imperante, senza riuscire a «centrare il positivo del noi». Per Alberto Pellai, neuropsichiatra dell’età evolutiva, la tendenza alla «strutturazione dell’identità narcisistica» si ridimensiona, da un lato, comprendendo che «solo in una logica di relazione condivisa» si rende più spiccato il processo di autonomia del figlio. E, dall’altro, recuperando dal passato la visione di «maternità e paternità sociale, quando non si era genitori solo dei propri figli, ma di una generazione». Ogni progetto di vita, dice infatti il professore dell’Università di Milano, si realizza all’interno della «relazionalità e non dei beni materiali». Questo ai figli andrebbe insegnato. Magari si può cominciare, secondo Pellai, con «l’integrare il più possibile i rapporti sociali familiari e del bambino, imparando ad esempio a fare vacanze con altri bimbi o a costruire micro-comunità familiari allargate».
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