giovedì 22 maggio 2014
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Nel grande spiazzo davanti al si­los, tra la stazione e il porto, di fronte al mare, la partita pome­ridiana di cricket è appena iniziata. Con mazze adattate portate dal Pakistan e palline da tennis modificate con il nastro isolante, si fronteggiano afghani e paki­stani. Sono i profughi della piccola Lam­pedusa, come viene chiamata Trieste. Realtà dimenticata, ma i dati prefettizi non lasciano dubbi: a marzo del 2013 c’erano una ventina di persone, oggi so­no 260. Tanti per una città di 200 mila a­bitanti che non offre possibilità lavora­tive a un’umanità fuggita da guerre, per­secuzioni e da paesi ridotti alla miseria per trovare lavoro nella vecchia Europa. Colpa dei muri alzati un anno fa in Gre­cia e Bulgaria. Ora il passaggio costa di più e avviene inevitabilmente dalla Slo­venia a Trieste o Gorizia. Sono tutti maschi con meno di 30 anni, hanno lasciato le famiglie per iniziare consapevolmente viaggi diventati odis­see. Cifra minima sei mila dollari per chi, la maggior parte attraversa a piedi Iran, Turchia e Balcani, allungando dall’Un­gheria fino al Carso, obbedendo agli or­dini dei trafficanti che concedono po­che ore di sonno e non ti fanno stare mai fermo. Il viaggio costa invece 10mila dol­lari per i più ricchi che arrivano in Tur­chia in aereo. Vengono al silos a concedersi un po’ di nostalgia. Si va dai richiedenti asilo in attesa di giudizio ai 'diniegati'- come si chiamano coloro la cui domanda di a­silo è stata respinta e hanno presentato ricorso - ai rifugiati con permesso, ma senza lavoro né alloggio. Regolari e par­te di un flusso inarrestabile, in balia di una catena di trafficanti globale. Flusso alimentato anche dai respingimenti dal Regno Unito che, in base al regolamento di Dublino, rimanda un profugo nel paese eu­ropeo di ingresso.  «Il silos – mi spiega don Sandro Amodeo, diretto­re della Caritas diocesa­na – è il primo appoggio per chi varca la frontie­ra. Si trova tra la stazione e il porto e dopo la se­conda guerra mondiale vi furono ospitati per an­ni i profughi italiani fug­giti dall’Istria». Oggi vi dormono disperati asiatici in rifugi tira­ti su con plastica e compensato. «Dentro ci sono una sessantina di per­sone – conferma il sacerdote – che non hanno trovato posto nel­le strutture di accoglien­za cittadine». Sono 'sen­za destinazione', man­giano alla mensa Caritas al mattino e alla sera. «Da noi hanno anche cu­re mediche – aggiunge il prete – abiti e l’opportu­nità di frequentare corsi di italiano».  Abby, nome di fantasia, afghano di etnia hazara (perseguitata dai taleba­ni pashtun) mi guida nel silos. Accanto alle pareti, ci sono una decina di cubi­coli dalla quale spuntano teste incurio­site a salutarci. Abby è arrivato a dicem­bre e ci ha passato l’inverno. Ha 25 an­ni e una folta barba nera, indossa una ka­meez , la lunga camicia senza collo.  «Ho lavorato sei anni come macellaio a Londra – racconta – dove ero arrivato nel 2007. Ho fatto domanda di asilo, me l’hanno respinta perché per il governo britannico posso tornare a casa. Vengo dalla provincia dell’Helmand e là non c’è nulla, solo miseria e violenza. Non ho contatti con i miei genitori, quando li chiamo piangono e divento triste an­ch’io perché non posso aiutarli. Mi han­no rispedito in Italia a fine 2013. Ho dor­mito nel silos con la bora e un freddo in­sopportabile. Ora dormo in una comu­nità della Caritas e aspetto che la com­missione valuti la mia domanda. Dopo? Vorrei restare». Se non troverà nulla, tor­nerà in nord Europa a lavorare in nero. «La loro condizione è difficile – aggiun­ge Eva Sicurella, responsabile immigra­zione della Caritas triestina – perché ar­rivano in una città che offre poco, con la barriera linguistica. Finché non arriva la risposta non possono lavorare, solo fre­quentare corsi. Ma molti sono analfa­beti e non sanno l’inglese. Sono spesso depressi, arrivano dopo viaggi terribili». Me ne parla Mohamed, 23enne paki­stano del Punjab, al refettorio diocesa­no. Laurea in comunicazione, arrivato da tre mesi, parla un po’ di italiano e vor­rebbe inserirsi. Ma le possibilità che gli sia concessa la protezione non sono molte. «Non posso tornare perché sono mem­bro di un partito di opposizione, mi uc­ciderebbero. Sono arrivato in aereo in Grecia, poi ho finito i soldi e ho cammi­nato fino all’Ungheria e da lì sono pas­sato in Slovenia e a Gorizia. La maggior parte viaggia a piedi e quando finisce i soldi si ferma finché non trova il dena­ro per proseguire. I passatori? Sono di tutte le etnie, anche europei».  Davanti al Cara di Gradisca d’Isonzo, nel goriziano, trovo Mohamed che soffre per il sovraffollamento della struttura e per le condizioni igienico-sanitarie preca­rie. Il 12 giugno comincia il processo al­l’ente gestore, il consorzio Connecting people, e al viceprefetto di Gorizia ac­cusato di aver gonfiato fatture. Mi ac­compagna sulle rive dell’Isonzo dove gli afghani si ritrovano a cucinare in una golena incolta che chiamano jungle , la giungla. Qui vive da solo, in un edificio dismesso John, espulso dal Cara per u­na rissa. Si arrampica su una scala pre­caria per difendersi dagli animali, si la­va quando può a Gorizia, dalla Caritas, che lo aiuta anche per il cibo. «Il centro è invivibile – sbotta Mohamed, 30 enne sposato e padre di due bambini lasciati a Mazar Il Sharif, che ha lavorato in Grecia come cuoco – ad esempio abbiamo il pocket money di 2,5 euro su chiavette inutilizzabili, perché le macchinette non funzionano. Allora veniamo qui con John a mangiare. Aspettiamo tutti la risposta della commissione alla nostra domanda». Anche John, eremita suo malgrado, attende l’esito. Si professa innocente, ovviamente, ha 25 anni e in Afghanistan sognava l’Europa. «Invece qui vivo come una bestia e non dormo mai per il freddo. Vengo da Tora Bora, ma la jungle è peggio. Come potete abbandonare così un essere umano?».
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