sabato 12 ottobre 2019
Il lungo viaggio di Antonio, Nabil e Andrea dall’istituto penale di Reggio Calabria alla Barcolana di Trieste, sull’imbarcazione che aveva trasportato 60 profughi in Italia nel 2014
Questa barca da strumento della tratta è diventata strumento di recupero di giovani carcerati. Qui sopra furono stipati ben 60 migranti e una donna vi partorì poco prima di essere sbarcata

Questa barca da strumento della tratta è diventata strumento di recupero di giovani carcerati. Qui sopra furono stipati ben 60 migranti e una donna vi partorì poco prima di essere sbarcata

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«Noi ci sentiamo quasi eroi per queste 500 miglia da Reggio Calabria a Trieste, in sette su una barca in cui è già complicato muoverci senza urtarci, e qui sopra in passato hanno navigato sessanta persone stipate una sull’altra... Una donna ha persino partorito a bordo, ci sembra impossibile». Il comandante della piccola ciurma è l’architetto Sandro Dattilo, presidente della sezione di Reggio Calabria della Lega Navale Italiana, e l’equipaggio con cui oggi a Trieste affronterà la Barcolana sono i ragazzi usciti per l’occasione dal carcere minorile della sua città, più tre esperti della vela accorsi a dare una mano nella regata più affollata e scenografica del mondo. Il tutto su una barca a vela sequestrata ai trafficanti di esseri umani e assegnata dal tribunale alla Lega Navale di Reggio Calabria, che l’ha sanificata e rinnovata a sue spese.

«Un progetto ardito – ammette Dattilo –, più volte stavamo per gettare la spugna, ma alla fine abbiamo trovato le energie e avuto il nulla osta dal ministero della Giustizia, anche se l’accompagnatore che ci avevano promesso in un primo tempo per controllare i ragazzi non ce l’hanno più mandato e tutta la responsabilità me la sono presa io. Se ho avuto timore che combinassero qualcosa? Mai, l’addestramento è iniziato a giugno e ormai sanno che la vela significa rispetto delle regole. All’inizio durante le lezioni erano un po’ strafottenti, guardavano più i loro passatempi elettronici che il mare, in fondo pensavano di essere trattati da “confinati”, invece io li ho trattati da marinai, duramente nella disciplina ma con il rispetto che è dovuto a tutti gli uomini. Ora sono un vero equipaggio».

Alla fine dell’addestramento solo Nabil, Andrea (nomi di fantasia, ndr) e Antonio hanno avuto le autorizzazioni per salpare il 28 settembre alla volta di Trieste, dove sono arrivati due giorni fa costeggiando le coste ioniche e adriatiche. «Avevo il terrore che non mi scegliessero – racconta Nabil, 14 anni, nato a Reggio da genitori di origine marocchina –, così ho detto: "Comandante, se non mi portate inizierò a piangere nell’istante in cui uscirete dal porto e smetterò il giorno che tornerete"».

Non era mai salito su una barca e il mare lo aveva visto molto poco, caduto presto nelle spire della criminalità. «Ho imparato a fare i nodi e come si mettono le vele. Col mare mosso ho avuto la nausea e tanta paura nelle tempeste, ma è l’esperienza più bella della mia vita, ora non vedo l’ora di fare la Barcolana, mi hanno parlato di migliaia di vele tutte insieme, manco le immagino, già una è un sogno», dice con perfetto accento calabrese. Andrea di anni ne ha 16 e viene da Arghillà, il quartiere dormitorio di Reggio Calabria, dove a breve verrà inaugurata la prima stazione di polizia (fino a oggi le forze dell’ordine non osavano nemmeno entrarci). «È stato, è, e sarà una cosa indimenticabile», dice senza smettere di lucidare la barca. «Non mi aspettavo un privilegio così grande, perché noi viviamo in un contesto detentivo, siamo ragazzi diversi... Dattilo è un vero comandante, un papà, con lui pensiamo spesso, inevitabilmente, ai sessanta che erano qui stretti a bordo. Che dire, mi dispiace tanto per loro. Da questa esperienza mi riporto a casa il mio futuro: ho scoperto di amare il mare e dopo il diploma all’Istituto Nautico lavorerò con mio zio sulle navi petroliere».

Alla fine della Barcolana – lo sa bene il comandante Dattilo – torneranno dentro, nella "comunità ministeriale" per la rieducazione, «ma credo con speranza. Perché la cosa peggiore è quando perdiamo la speranza. Loro rientreranno con un sogno, hanno visto che un’altra vita è possibile, che ci sono cose splendide. Devono chiudere con il passato perché hanno un’età in cui tutto è ancora possibile». Glielo ha detto l’altra sera nella tappa di Venezia, in pizzeria: «Per la prima volta ho chiesto loro che reato avessero commesso, per abbattere anche l’ultimo muro. Anche se ci sono cose che non diranno mai, perché liberarsi di certe storie familiari non so se sarà mai possibile». Una pizza che volevano a tutti i costi pagarsi, i giovanissimi marinai, «ma non gliel’ho permesso, sono piccoli segnali che a loro danno una certezza, "allora ci vogliono bene", e in automatico si comportano da persone per bene».
L’imbarcazione, confiscata alla criminalità organizzata dopo l’ultimo sbarco in Calabria nel 2014, è uno sloop di 12 metri: un solo albero, tre cabine e due bagni. Era partita dalla Turchia con il suo carico umano. «Strumento di morte e di tratta umana, oggi è diventata simbolo di rieducazione e speranza», dice Antonio, 21 anni, il terzo dell’equipaggio, il più adulto. Avendo commesso il reato quando era minorenne ha il diritto di proseguire il suo iter nella giustizia minorile: «Dopo tanti anni di detenzione i magistrati ci hanno fatto questa concessione, siamo i primi a poter fare la Barcolana – sorride –. Siamo grati e lusingati, ovviamente però siamo ragazzi con una giusta condotta – spiega –, i miei due compagni sono in “messa alla prova”, io dopo aver passato svariate carceri minorili da due mesi sono in detenzione domiciliare in una comunità ministeriale. Tutti e tre scontiamo una pena, ma su questo scafo abbiamo appreso il significato di libertà, letteralmente cerchiamo di capire dove ci porta il vento in questa fase della nostra vita. E poi abbiamo visto per la prima volta l’alta Italia, e dal mare aperto: nemmeno i cittadini normali hanno questa opportunità... ti può cambiare la vita». Parla come un testo di giurisprudenza, cita leggi e articoli, ma «se parlo bene è perché il Codice penale in questi anni me lo sono ripassato molte volte», sorride amaro.

Cambiare la vita. È il senso del progetto di Dattilo, che si rifà ai veri obiettivi sociali scritti nello statuto della Lega Navale: diffondere la cultura marinaresca nella società civile con attenzione particolare ai meno fortunati. A questo scopo lui e gli altri soci si sono tassati e hanno lavorato manualmente per ripristinare la "Evai", (la scaramanzia marinara vieta di cambiare il nome originale, pena la sfortuna), poi l’hanno messa a disposizione dei minori delle comunità di rieducazione (solo due gli sponsor, la ditta Fabbro che ha fornito i cibi in scatola e la Network Technology che ha installato a bordo le telecamere h24, anche a infrarossi per le riprese notturne), fino a “osare” oggi la grande avventura triestina: «Il 28 mattina siamo salpati da Reggio dopo la cerimonia di benedizione data da don Nuccio Cannizzaro ed ora eccoci qui – conclude il presidente, emozionato nell’attesa che il cannone dia il via alle oltre duemila vele giunte da tutto il mondo –. La Barcolana ha un significato speciale per noi, perché per statuto fin dalle origini la competizione è seconda allo stare insieme. Barcolana è uno stile di vita».

Alle 10 e mezza oggi il cannone darà il via alle 2.015 barche di ogni categoria e dimensione, allineate tutte assieme lungo la linea di partenza ideale tra il Faro di Barcola e il Castello di Miramare. A quel punto Nabil, Antonio e Andrea isseranno le vele e prenderanno il vento. «In fondo se non ero detenuto non avrei mai studiato...», dice Antonio nell’ultima confidenza prima della gara, «a gennaio finisco la pena e mi laureo pure in Economia aziendale: in cella invece di perdere tempo ho studiato, da libero non l’avrei mai fatto. Anche Andrea e Nabil si stanno diplomando grazie al carcere. Mi creda – guarda all’orizzonte – la libertà è un concetto complesso».

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