sabato 1 giugno 2013
​Le famiglie «larghe» di don Benzi da 40 anni con gli ultimi. Dalla disabilità mentale, alla droga, all’Aids, alle nuove schiavitù. L’antidoto più efficace? Maternità e paternità.
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​Per raggiungere il palco bisogna scavalcare materassini su cui bambini disegnano, mamme allattano, papà sono affaccendati con siringhe di cibo da iniettare nella Peg dei piccoli disabili, mentre i fratelli giocano, si inseguono, ridono. Tutto intorno, a centinaia, facce giovani e vecchie, serene e nettamente segnate dalla vita, bianche e nere, europee e venute da tutte le periferie del mondo. Qui dentro, nei padiglioni della Fiera di Rimini, c’è la vera umanità, tutta, senza buonismo e nessuno escluso: è la festa degli amici di don Oreste Benzi, il convegno delle sue case famiglia, un’idea profetica nata sulle colline di Rimini, a Coriano, nel 1973 e da qui irradiata in tutto il mondo (ormai le strutture di accoglienza dell’associazione Papa Giovanni XXIII sono 500 in 32 Paesi). «L’intuizione di don Benzi su come rispondere ai poveri che bussavano alla sua porta ha compiuto 40 anni – raccontano i padri e le madri delle sue realtà –, ormai la casa famiglia ha raggiunto l’età della maturità e della consapevolezza, è un modello che ha ampiamente dimostrato la sua validità, chiediamo alle istituzioni un pieno riconoscimento legislativo». Dalla A di Albania alla Z di Zambia, sono arrivati tutti qui a raccontare con i fatti, di fronte ai quali le parole sono davvero insufficienti. «Non si può amare Dio, che non si vede, se non ami il fratello che si vede», spiega con semplicità disarmante Andrea Volon, 68 anni, origine belga, che non si offende se gli si dice che il suo volto rugoso è da senzatetto: «Sono vissuto sette mesi sui cartoni con i barboni prima di fondare la Capanna di Betlemme qui a Rimini, la prima che don Oreste ha voluto per accoglierli – ride, e lo considera un complimento –. Lui diceva sempre "dove siamo noi, lì anche loro", intendendo così spiegare il senso della totale condivisione con gli ultimi, ma io gli rigiravo la frase, dove sono loro, lì anche noi». È così che, ad esempio, quando don Benzi lo inviò in Zambia ad aprire la prima delle strutture di missione all’estero, ci restò solo 16 mesi «perché a me piace stare tra i poveri». E in Zambia non ce ne sono? «Sì, ma la casa costruita per loro era bella, partivo da privilegiato. Così mi ha mandato a Soweto, nelle baraccopoli del Kenia». È uno degli amici della prima ora, Andrea Volon, e ricorda bene i tempi della geniale intuizione che ha rivoluzionato le società e il concetto stesso di solidarietà, non più basata sull’assistenza, ma sulla condivisione. «L’ho incontrato 32 anni fa a Spello, dove ero approdato durante una ricerca interiore che mi aveva portato in giro per il mondo, da Madre Teresa, ai trappisti in Francia, a Taizé... Il mio padre spirituale a Spello mi disse: ho capito cosa cerchi, vai a Rimini da un certo prete... Ci sono andato e mentre entravo l’ho sentito dire la frase che mi ha scolpito la vita, "noi siamo chiamati ad andare nel fosso con chi è nel fosso"». Da lì l’esperienza con i disabili mentali a San Marino, poi la prima casa famiglia in Zambia, i dieci anni nelle baraccopoli del Kenia, i barboni e, man mano che don Benzi lo inviava nel mondo, il Brasile, l’India («dove ci hanno espulsi perché vivevamo con gli intoccabili»), la Russia, adesso Haiti, «dove tra quattro mesi la casa sarà pronta».La formula è la stessa e funziona in tutte le società, perché ovunque l’umanità ha gli stessi bisogni: una vera famiglia, con un uomo e una donna che diventano madre e padre di chi una famiglia non l’aveva, senza distinzione d’età o di fragilità, accogliendo bambini soli come anziani o ragazze madri o giovani disagiati, tutti sotto un unico tetto... «Si parla tanto di razzismo o femminicidio, ma l’antidoto è una casa famiglia di questo tipo, che lavora per rimuovere la cause alla radice», commenta Carla Buffadini, negli anni ’70 tra le prime madri. «In quarant’anni la famiglia è cambiata – fa il punto Marco Lovato, veronese ma padre di una casa famiglia in Sicilia e responsabile di tutta la rete di strutture - dunque sono cambiati anche i problemi.Inizialmente l’idea di don Oreste nacque sul disagio fisico e mentale, in anni in cui il disabile veniva nascosto come una vergogna, non andava a scuola né frequentava la società: era l’epoca dei grandi istituti. Poi negli anni ’80 ci fu la piaga della tossicodipendenza e noi ci strutturavamo per i ragazzi vittime della droga. Arrivò l’Aids che colpì anche tanti piccoli – continua Lovato – così il diritto di tutti i bambini di vivere sulle ginocchia di un padre e una madre divenne anche il loro diritto di morire nell’abbraccio di due genitori. Poi sono arrivate le nuove schiave, povere bambine vendute sulle strade del sesso, e chi se non una madre può consolarle?». E oggi? La nostra società produce un numero allarmante di adolescenti con disagio mentale, frutto delle nuove droghe ma anche dell’eclissi dei padri. «Le istituzioni sono lente, faticano a capire la nostra formula della complementarietà familiare», denuncia Lovato. Nella sua casa famiglia, per esempio, Simone è entrato che aveva 8 anni, veniva da un istituto psicopedagogico. «Secondo le leggi, che pensano e agiscono per fasce d’età, avrebbe dovuto cambiare la realtà d’accoglienza a 12 anni, poi a 16 e di nuovo a 18. È nostro figlio da 21 anni».
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