domenica 5 aprile 2020
Da Bergamo al Sacco: Caterina, Margherita e Cecilia iniziano la vita professionale nel cuore dell’epidemia
Tre sorelle in trincea: la nostra lotta al virus
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Tre donne, tre giovani medici, ma anche tre sorelle. E tutte, a diverso titolo, alle prese con il Covid–19. È la singolare esperienza di Caterina, Margherita e Cecilia che, dopo la laurea all’Università degli Studi di Milano, vivono i primi anni di vita professionale in Lombardia in una delle peggiori calamità sanitarie dell’ultimo secolo. Caterina, 34 anni, cardiologa, si trova su uno dei fronti più caldi: il reparto Covid dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Ho scelto di fare medicina – racconta Caterina – perché mi ha sempre affascinato il modo in cui lavoravano mio papà, mia zia, mio nonno, tutti medici.

Dopo la tesi in Medicina d’urgenza, ho cominciato la specialità di Cardiologia all’ospedale San Luca, con alcuni stage a Niguarda, dove ho conosciuto la cardiologia pediatrica. Dopo un periodo in un ospedale pediatrico a Parigi, ho completato la specialità a Bergamo. Ho cominciato con le guardie in Unità coronarica in un istituto convenzionato e ora sostituisco all’ospedale di Bergamo una collega in aspettativa».

Con l’emergenza è cambiata la vita: «Ogni reparto ha ceduto personale all’Unità Covid, prima il 10, poi il 25% e il mio primario ha privilegiato i giovani: tanti medici si sono contagiati, ma prima e fuori dall’Unità Covid. Qui i reparti sono ripensati e divisi in “zona sporca” in cui si trovano i malati, e medici e infermieri ricoperti delle protezioni totali, e una “zona pulita” in cui bastano mascherina e cuffia e si svolgono attività diverse, scrivere i documenti o telefonare ai parenti. Io sono nella pneumo–Covid, pazienti a corto di ossigeno, che possono dover usare i caschi a pressione positiva (che aiutano a tenere aperti gli alveoli polmonari), ma se devono essere intubati passano in terapia intensiva. Ci sono 50 posti letto, tutti occupati. Oltre a pneumologi e infettivologi, punti di riferimento fissi, sulle 24 ore siamo una dozzina di medici distaccati dagli altri reparti che giriamo sui tre turni di 8 ore, facendo in media un paio di notti a settimana». Fatiche a parte, è una sfida professionale: «È una malattia nuova, con caratteristiche diverse da altri tipi di insufficienza respiratoria, si studia come trattarla al meglio. Si torna medici alle prime armi, alle prese con un nemico nuovo, e trovo molta disponibilità da parte di tutti i colleghi, anche quelli più anziani e di altre specialità. Però si vedono da vicino situazioni pesanti, e tanta sofferenza umana».

Margherita, 32 anni, neuropsichiatra, sperimenta le difficoltà dei pazienti fragili che sul territorio vivono le restrizioni della quarantena, privati di terapie e contatti sociali. «Ho scelto Medicina incuriosita dalla prospettiva di aiuto sociale, del disagio giovanile. Dopo la tesi in Neuropsichiatria, sono andata in Francia, prima per un tirocinio in Pediatria a Lisieux poi per la specialità in Medicina generale: si va subito in reparto con i malati, con forte responsabilizzazione. Ma nel frattempo avevo vinto il posto per Neuropsichiatra infantile in Italia e sono rientrata a Milano».

Fresca di specialità inizia a lavorare per una sostituzione in una Unità operativa di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza (Uonpia) in Lombardia: «Svolgo attività ambu-latoriale, prime visite, e controlli dei pazienti. L’équipe comprende una quindicina di persone, tra strutturati e noi consulenti: due neuropsichia-tri, psicologi, fisioterapisti, psicomotriciste e logopediste. I pazienti hanno diversi tipi di fragilità cognitive e disturbi comportamentali: siamo referenti per sei Comuni, con 5–10 prime visite a settimana».

Il Covid–19 ha avuto un grande impatto: «L’équipe ha dovuto dapprima dilazionare, poi sospendere le terapie in sede. Abbiamo mantenuto il contatto al telefono con pazienti che sono “fragili”, con indicazioni sulla gestione del tempo a casa e proponendo attività. Una funzione di supporto a famiglie che si sentono abbandonate con i loro problemi. Non è stato ancora possibile dar vita a incontri video, però abbiamo stretto relazioni con i docenti, per inquadrare meglio i problemi di alcuni alunni. Prestiamo consulenze telefoniche: una mamma, dopo un parto difficile, voleva rassicurazioni sulle condizioni di suo figlio. E prima del via libera, anche autorizzazioni scritte a portar fuori i casi più gravi».

Cecilia, 28 anni, specializzanda in Medicina d’urgenza, accoglie al Pronto soccorso dell’ospedale Sacco di Milano i pazienti che, dopo il triage infermieristico, sono altamente sospetti di essere positivi al coronavirus. «Ho scelto Medicina perché volevo essere contenta del mio lavoro, come vedevo che lo era mio papà e gli altri miei parenti medici. Dopo la tesi in Rianimazione a Niguarda, ho avuto il posto nella specialità di Medicina d’urgenza: mi pace l’idea di essere il primo medico che incontra il paziente. Ho cominciato al Policlinico, poi sono passata al Sacco dove mancavano specializzandi ». Per quanto il Pronto soccorso sia sempre una prima linea, il Covid–19 ha modificato profondamente il lavoro: «Di solito noi specializzandi affianchiamo il medico, e si ragiona insieme; quando c’è più lavoro, visito il paziente da sola, faccio le mie ipotesi e mi confronto con il medico responsabile.

Con l’attuale emergenza è stato modificato l’ospedale, spostata la Rianimazione, creati due percorsi in Pronto soccorso: chi viene per altri motivi entra in una zona “pulita”; quelli che si sospettano positivi al Covid vengono portati nella zona “sporca” dove trovano noi medici completamente protetti da tute e mascherine. Il lavoro qui è intenso: sei da solo con il malato, perché i parenti non ci possono stare, e vanno avvisati anche di notizie pesanti al telefono, e non è facile. I dispositivi di protezione e le mascherine dopo un po’ stancano. In più siamo tutti uguali e se anche rivedi lo stesso paziente, non ti riconosce». In mezzo a tanta fatica e sofferenze, c’è qualche aspetto positivo: «Si sono pressoché azzerati gli accessi impropri al Pronto soccorso. La malattia nuova stimola la curiosità dei medici a informarsi e a confrontarsi sui dati che vengono pubblicati, e partiamo tutti alla pari: nessuno ha conoscenze pregresse. A gennaio avevamo fatto un corso sulle maxi emergenze: ora abbiamo occasione di imparare sul campo, però non vedo l’ora che finisca e si torni a reincontrare le solite urgenze. E spero che non succeda mai più». Intanto a casa, in montagna, Chiara (la quarta sorella) tiene d’occhio gli impegni di tutte e lavora da “ufficio postale elettronico” per la famiglia. © RIPRODUZIONE RISERVATA Da Bergamo al Sacco: Caterina, Margherita e Cecilia iniziano la vita professionale nel cuore dell’epidemia

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