venerdì 13 agosto 2010
Una ricerca del Cnr indaga i legami tra spiritualità e guarigione. Il risultato sembra incoraggiante: chi crede sopravvive più a lungo
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Chi ha fede in Dio ha più possibilità di sopravvivere al trapianto di fegato rispetto a chi non crede. L’ultima conferma scientifica dell’apporto alla guarigione dato dalla dimensione spirituale arriva dal Cnr. La ricerca è di Franco Bonaguidi, psicologo presso l’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche, diretto dal dottor Eugenio Picano, ed è in via di pubblicazione su Liver Transplantation, la prestigiosa rivista americana punto di riferimento per i trapianti di fegato.Lo studio ha coinvolto 179 candidati al trapianto, operati tra 2004 e 2007, in collaborazione col Dipartimento di trapiantologia epatica dell’Azienda ospedaliero-universitaria pisana, guidato dal professor Franco Filipponi. I pazienti erano in maggioranza cattolici, con una presenza ridotta di ortodossi e musulmani. Lo studio ha indagato il rapporto fra uomo e Dio, indipendentemente dal credo e dalla partecipazione alle funzioni. Tra gli intervistati, 18 non sono sopravvissuti all’intervento.Il rapporto con la fede è stato classificato come «Ricerca (attiva) di Dio», «Attesa (passiva) di Dio» e «Fatalismo». Sorprendente il risultato: «I pazienti che riportavano un punteggio negativo nel fattore “Ricerca di Dio” – spiega Franco Bonaguidi – presentavano un rischio di morte per tutte le cause tre volte più elevato di quelli che riportavano valori positivi». A 4 anni dal trapianto infatti era in vita il 93,4% dei pazienti credenti, con una mortalità del 6,6%, sopravvivenza che scende al 79,5% per agnostici e atei, con mortalità al 20,5%. Bonaguidi non ha dubbi: «La religiosità, intesa come ricerca attiva, è associata a una migliore sopravvivenza nei pazienti sottoposti al trapianto di fegato». L’intervento dello psicologo nei pazienti che affrontano questi trapianti, è nella routine: «È un percorso fortemente stressante – spiega il ricercatore – e i candidati al trapianto sono sottoposti a una valutazione psicologica per aiutarli ad affrontare il momento particolarmente difficile e identificare chi presenta eventuali controindicazioni».L’idea della ricerca nasce proprio da questi colloqui: «Alcuni riferivano un profondo ritorno alla religione e alla spiritualità. Così, per comprendere meglio questo fenomeno anche in termini prognostici, è stato sottoposto ai pazienti un questionario» ad hoc.La fede insomma «è un elemento di fragilità psicologica e quindi un fattore di rischio? O invece un fattore protettivo»? Lo studio conferma questa ipotesi. «Ma l’analisi fattoriale – precisa il ricercatore del Cnr – ha dimostrato che non ogni modo in cui il paziente si rivolge a Dio è associato a una migliore prognosi. Un atteggiamento più passivo, di attesa, non si associa ad alcun vantaggio prognostico». Diversamente, «è proprio la fede in Dio, non in un generico destino, ad essere associata con la sopravvivenza dei malati». Illuminanti alcune testimonianze. «Ho recuperato la vita – racconta una paziente – per volere di Qualcuno che da lassù mi ama. Io sapevo che avrebbe deciso Dio e avevo una grande fiducia. Ero con Lui. In questa vicinanza mi sentivo forte e serena». «Il paziente vive un’ambivalenza verso il trapianto – spiega Bonaguidi – tra paura e speranza. Sente tutta la sua finitudine, avverte di essere sulla soglia tra la vita e la morte». E succede che «diversi pazienti si trasformano, diventano veri, essenziali, riscoprono i valori della vita mentre perde significato la carriera e il denaro. Molti tornano a un Dio personale, privato, intimo, che ricorda quello che Tolstoj descrive in “Resurrezione”».Racconta un altro paziente: «Il trapianto è un’esperienza che mi ha arricchito più di tutte. Sono arrivato alla frontiera tra vita e morte. Prima chiedevo a Dio di farla finita nel migliore dei modi, ma quando ho avuto la prospettiva del trapianto aspettavo ogni giorno che mi chiamassero e il mio rapporto con Dio era “sia fatta la tua volontà” e che mi assistesse nel bene se aveva deciso così, nella fine se aveva deciso diversamente. Sono entrato in sala operatoria tranquillo, capace di vivere e morire senza differenza, perché la vita è fatta di due momenti importanti, uguali e belli, il nascere e il morire».
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