sabato 17 dicembre 2016
Reportage sulle occupazioni abusive: 1.200 migranti abitano in una parte dell’ex villaggio degli atleti, costruito per le Olimpiadi invernali del 2006. Un piccolo paese di dimenticati dentro la città.
Tensioni a Torino tra le palazzine dell'ex villaggio olimpico da tempo occupate da famiglie di immigrati e profughi (Ansaweb)

Tensioni a Torino tra le palazzine dell'ex villaggio olimpico da tempo occupate da famiglie di immigrati e profughi (Ansaweb)

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TORINO. Sulla piastra elettrica c’è la pentola con carne, sugo e arachidi, messi a cuocere dal mattino presto. Da qualche parte ci deve essere ancora un po’ di thiebou yapp con il riso e le cipolle. È un ristorante molto particolare, senza tavoli e con qualche sedia sparsa, quello che il 34enne Boukhari porta avanti da qualche mese al pianterreno di una delle palazzine occupate dell’area dell’ex mercato ortofrutticolo, poco distante dalla stazione ferroviaria Lingotto: «Dal Senegal mi ero trasferito in Libia per lavorare, ma con la guerra siamo stati costretti a scappare. E con una barca sono arrivato a Lampedusa. Dopo un’infinita odissea tra Puglia e Francia, adesso vivo qui. In teoria, ogni piatto costa 2 euro, ma spesso chi viene non ha i soldi per pagare».

Boukhari è uno dei 1.200 migranti che abitano in una parte dell’ex villaggio degli atleti, costruito per le Olimpiadi invernali del 2006. L’atmosfera pare quasi surreale, ma non si avverte una sensazione di pericolo. In totale le palazzine sono più di 20, a distanza di qualche metro l’una dall’altra: di queste, quattro sono quelle occupate, mentre le altre ospitano uffici, case popolari, un ostello e le sedi di attività sociali e culturali.

L’abusivo è quindi accanto al regolare, in un sostanziale equilibrio sviluppato nel corso degli anni. L’occupazione è iniziata nel marzo del 2013 negli appartamenti lasciati disabitati: «Finito il progetto Emergenza Nord Africa, almeno 150 migranti si sono ritrovati in mezzo alla strada – spiegano gli attivisti del Comitato di solidarietà rifugiati e migranti – dopo essere passati dai centri di accoglienza. Il 90% di loro non sapeva l’italiano, anche se parlavano altre lingue. Non avevano ottenuto la residenza, e, anche se in possesso di permesso di soggiorno, erano bloccati in una sorta di limbo senza uscita. Non sapevano dove andare e non ottenevano risposta».

Nel corso del tempo, con il passaparola, sono aumentati e ora si stima che nelle quattro palazzine a sei piani ci siano circa 1.200 persone provenienti da almeno 28 diversi Paesi: il 16% è costituito da donne e si contano almeno 50 bambini. Gli aiuti arrivano «Sono quasi tutti legalmente in Italia: almeno la metà beneficia di protezione umanitaria, gli altri quella sussidiaria o l’asilo politico». Gli irregolari - spiegano - sarebbero meno di un centinaio, passati dai centri di accoglienza e ora senza sistemazione: «Hanno ricevuto il cosiddetto doppio diniego, ma non saprebbero neppure come andarsene dall'Italia, senza mezzi né speranze». In alcuni alloggi sono assiepate decine di persone e alla mattina è necessario appoggiare i materassi al muro per camminare. C’è acqua corrente ed elettricità, ma ovviamente il riscaldamento a pavimento non funziona da anni: quando ci sono, si usano le stufette elettriche e le famiglie con bambini possono provare a usare il boiler per avere acqua calda.

Una comunità ormai consistente, con un’organizzazione interna ben definita: ogni settimana si tiene un’assemblea con due rappresentanti per ogni nazionalità per dirimere eventuali controversie, risolvere i problemi e decidere anche i turni di pulizia. Ai piani bassi, gli spazi comuni. All'esterno, un micro-bar con pareti in lamiera e qualche minimarket, un sarto, un barbiere ("barba a 3 euro, taglio capelli a 5 euro" dice il cartello scritto a mano e attaccato a uno specchio) e persino una stanza dedicata alla preghiera. E poi, c’è la scuola, con la lavagna e i gessetti accanto alla cartina dell’Italia: «Vogliamo essere un presidio istituzionale – spiega Nuccia Maldera, insegnante Cpia 3 (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti) – perché si fa scuola dove è necessario. E cerchiamo di essere una scuola vera, non un corso di lingua condotto da volontari: servono veri insegnanti per i certificati ufficiali».

Un piccolo paese all'interno di Torino, quindi, che ha creato momenti di tensione nelle scorse settimane con i residenti, seguite da promesse di sgombero delle palazzine, abusivamente occupate: «Stiamo cercando di abbattere i pregiudizi – risponde Nicolò Vasile, del Comitato – andando anche nelle parrocchie per presentare i ragazzi e le loro storie. Sarebbe opportuno che le autorità pensassero a costruire un rapporto di fiducia, magari proponendo un percorso lavorativo. Gli sgomberi immediati non servono a nulla. Ci sarebbero semplicemente 1.200 persone buttate in strada». E la Migrantes di Torino, dopo anni di attività all’ex Moi, ribadisce la necessità di creare percorsi di inserimento: «In Italia, l’accoglienza funziona bene nella prima fase – spiega Sergio Durando, direttore dell’Ufficio diocesano della pastorale migranti – ma poi si rischia di abbandonare la gente nella marginalità. La persona deve essere sempre messa al centro del nostro impegno».

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