sabato 2 dicembre 2017
Nel rogo dello stabilimento morirono 7 operai. I familiari: i dirigenti condannati vadano in cella. Boccuzzi (Pd): c’è ancora molto da fare. Anmil: ecco le lacune del Testo Unico
Thyssen e sicurezza sul lavoro Mancano ancora venti decreti
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Le fiamme, le urla, gli uomini bruciati. Sono passati dieci anni da quella notte, ma il ricordo della strage della Thyssenkrupp di Torino è ancora vivido nella memoria del Paese e il dolore dei familiari non è stato attutito dal trascorrere del tempo. La notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, costata la vita a sette operai, ha segnato uno spartiacque, un confine tra un “prima” e un “dopo” di una comunità nazionale che ha così drammaticamente (ri)scoperto la tragedia degli infortuni sul lavoro. Il sacrificio di Antonio Schiavone, morto quasi subito avvolto dalle fiamme e di Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe De Masi, spirati alcuni dopo giorni, altri dopo settimane di agonia, è servito a far prendere coscienza dell’urgenza di rimettere a tema la salute e la tutela della vita dei lavoratori.

Che è poi lo scopo per cui Antonio Boccuzzi - l’ottavo operaio coinvolto nell’incidente e unico superstite di quella notte disgraziata - si è dato alla politica, entrando in Parlamento con il Partito Democratico: «Ho scelto l’impegno politico perché credo nella necessità di una legislazione migliore sugli infortuni sul lavoro. Dopo il rogo molto è stato fatto, ma molto è ancora da fare. E la politica aveva, ha e deve avere un ruolo per la sicurezza dei lavoratori ».

E sull’onda emotiva di quei giorni la politica si mosse. Il primo “effetto” fu l’accelerata all’iter di approvazione del Testo Unico 81 del 2008, che vide la luce in primavera. «Con quella legge – spiega l’avvocato Maria Giovannone, esperta di Diritto del lavoro e amministratore delegato e direttore scientifico di Anmil Sicurezza – viene stabilito che la sicurezza non è più soltanto un problema del lavoratore e del datore di lavoro, ma riguarda l’intera organizzazione aziendale. A mio giudizio, sono due le innovazioni principali introdotte dal Testo unico. La prima riguarda la “delega di funzioni”, che stabilisce che il datore di lavoro deve delegare la sicurezza a persone competenti di cui è chiamato a verificare il corretto operato. La seconda è l’aver esteso la responsa- bilità amministrativa e penale a carico non solo delle persone fisiche ma anche delle imprese».

A quasi dieci anni dall’entrata in vigore, il Testo Unico, ricorda Giovannone, sta però ancora aspettando l’approvazione di una ventina di decreti attuativi, la cui mancanza lo rendono di fatto “zoppicante”. «Si sarebbe dovuto razionalizzare la sorveglianza sanitaria sui lavoratori e non è stato fatto – denuncia l’esperta –. Dopo tanto parlarne, non è stata ancora introdotta la cosiddetta “patente a punti” in edilizia anche per l’ostruzionismo delle associazioni datoriali. Insomma, tanto è stato fatto ma molto resta da fare. Come, per esempio, l’istituzione della Procura nazionale a cui affidare le indagini sugli incidenti sul lavoro». Per primo, anni fa, ne parlò il pm del processo Thyssen, Raffaele Guariniello, che ha messo anche questa «terribile» esperienza nel suo libro “La giustizia non è un sogno”, pubblicato da Rizzoli e presentato ieri sera a Pordenone.

«La specializzazione è la chiave di tutto – spiega il magistrato, oggi in pensione, ma consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sui morti da uranio impoverito –. Troppi fascicoli si prescrivono perché rimangono fermi durante le indagini preliminari. Servono magistrati specializzati».

E tempi certi per i processi. Almeno questo della Thyssen è andato in porto, anche se non tutti i colpevoli stanno scontando la pena. Nel maggio 2016 la Cassazione ha confermato le pene che vanno da 9 anni e 8 mesi a 6 anni e 3 mesi. Per i quattro imputati italiani si sono così aperte le porte del carcere. Non così, invece, per i due manager tedeschi, Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, che sono ancora a piede libero in Germania. «Non possono passarla liscia. Sono degli assassini», dicono i familiari delle sette vittime, che stanno pensando di organizzare un viaggio in Germania per chiedere di mandare in cella i dirigenti tedeschi della società.

«Me l’hanno ammazzato, a soli 36 anni. A me, a sua moglie e ai suoi tre figli: il più piccolo all’epoca aveva solo due mesi», ricorda Elena, la mamma di Antonio Schiavone. «L’unico modo per andare avanti è cercare giustizia», le fa eco Graziella Rodinò, mamma di Rosario, ucciso a soli 26 anni. Nelle scorse settimane, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha chiesto alla Germania di eseguire la sentenza. Il minimo per rispettare il dolore di queste madri, che da dieci anni piangono un figlio non più tornato dalla fabbrica dell’orrore.

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