venerdì 26 ottobre 2012
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FAMIGLIA
Disabili, ex galeotti, ex tossicodipendenti
Dieci figli speciali intorno allo stesso tavolo
Quando Laura Lubatti e Marco Lovato, entrambi ventenni e freschi di matrimonio, gli chiesero di partire per le missioni, don Benzi si illuminò e rispose senza esitazione: «Certo, vi mando in Sicilia!». Loro si aspettavano l’Africa o l’America Latina, invece partirono – lui veneto e lei piemontese – per un’area "ad alta densità mafiosa". Da allora sono passati vent’anni e la loro casa-famiglia è cresciuta, grazie alla nascita di cinque figli e all’accoglienza di altri dieci: «Una casa-famiglia non è altro che una famiglia in una casa», spiega Laura, aggiungendo che in fondo ha solo realizzato il suo sogno, «diventare mamma di tutti coloro che, per i motivi più svariati, non possono avere una famiglia propria». E così nella casa-famiglia di Santa Venerina sono arrivati man mano tanti figli: ragazzini del carcere minorile di Acireale, disabili, ex tossicodipendenti in via di guarigione. E intorno a questa grande famiglia sono nati una cooperativa dove lavorano tutti insieme, una compagnia teatrale, una scuola di calcio, laboratori di oggettistica e artigianato e un centro diurno per disabili gravi. Il tutto dovendo fare i conti con una mafia che, se qualcosa teme, sono i fatti positivi, quelli che offrono ai giovani un’alternativa e così li liberano dal suo giogo. "In questa cooperativa non si paga il pizzo. Si prega di non insistere", è scritto sulla porta della falegnameria, e sotto, a scanso di ogni equivoco: "Dio solo è la nostra forza, a Lui solo siamo debitori". «L’episodio chiave? – dice Marco – Il mattino in cui mi invitarono a parlare nel carcere minorile di Bari e alla fine Giovanni, 16 anni, mi disse "allora stasera quando torni a Catania ti porti a casa chi di noi può uscire da qui". Ho capito in quel momento che il giorno del matrimonio io e Laura non avevamo promesso a Dio di accogliere solo i figli che ci avrebbe dato, ma tutti i suoi piccoli, per diventare famiglia con loro».
VITA
Mariangela nmon doveva nascere.
«Il suo sorriso? Una domanda d'infinito»
Mariangela doveva morire il 14 ottobre del 2006. Invece quel giorno è nata: alla 23esima settimana di gravidanza, i suoi genitori avevano deciso di abortirla dopo che un’ecografia aveva rivelato l’assenza dei bulbi oculari. Per il resto era una bambina sana, ma non avrebbe mai visto i colori del mondo. L’aborto tecnicamente "non riuscì" perché Mariangela di morire non aveva proprio intenzione e così è nata a 23 settimane, prematura ma piena di vita. «Urlava e scalciava nell’incubatrice», ricordano all’ospedale di Padova, dove quei 562 grammi di vitalità crebbero con grinta. Ma i suoi genitori non ebbero la forza di portarsi a casa una bimba che ora non era più soltanto cieca, ma a causa di quel parto prematuro non vedeva e non sentiva, non parlava e non camminava. Chi avrebbe potuto accogliere una figlia altrui così sfortunata? Il Tribunale dei minori contattò la Papa Giovanni XXIII, «e così in casa nostra è entrata la luce», raccontano Giancarlo e Marina, padovani, già genitori di tre figli naturali e di altri tre accolti. A Mariangela hanno regalato due occhi di resina perfettamente uguali a quelli lasciati in cielo e lei li ha ricambiati con tanti sorrisi. «In questi cinque anni di vita ha subìto ricoveri e operazioni gravose, eppure mai un lamento. Tante volte ci siamo fermati a immaginare come sarebbe stata se l’avessero lasciata nascere normalmente: anche senza vederle avrebbe scalato le montagne. Della sua mamma non sappiamo nulla e certo non la giudichiamo – la difende agguerrita Marina –. Io da madre potevo fare solo questo: ogni volta che davo una carezza a Mariangela, dirle che era la carezza della sua mamma». Pochi mesi fa Mariangela è morta per una broncopolmonite, ma la sua breve vita è stata felice e certo non inutile. «La provocazione che ci ha posto ogni giorno era il suo sorriso. Perché sorridere, con una vita del genere?». Mariangela, la bimba con gli occhi di bambola, vedeva lontano.
BAMBINI
Shebab, 10 anni, raccoglitore d'immondizia
Ora a scuola impara a ridiventare bambino
Ci sono storie che sembrano negare anche la più remota possibilità di riscatto. Storie che appaiono disperate. Quella di Shehab, 10 anni, è una di queste. Vive in Bangladesh, un Paese ai primi posti nelle classifiche mondiali della schiavitù infantile, e fa il "tokai shongo", il raccoglitore di immondizia. Purtroppo non è il solo bambino degradato a una condizione miserevole, se nel suo Paese almeno 8 milioni di piccoli sono schiavizzati e due milioni vivono in strada, non perché orfani ma perché abbandonati da genitori troppo poveri. Shehab, come gli altri "raccoglitori di immondizia", vive da solo, buttato a terra sulle banchine della ferrovia affollata e chiassosa di Dhaka, per coperta una coltre di polvere. E per "lavoro" fruga nelle discariche sporche della già sporca periferia di una città che di pulito ha ben poco. Cerca ferro, plastica, vetro, stracci, scarpe rotte, perché ciò che per altri ormai è inutilizzabile per lui è ancora buono: lo porterà nei negozi di riciclaggio e in cambio avrà un pugno di riso. L’unica differenza tra Shehab e i suoi compagni di sventura sta in una maturità innata che lo preserva dallo sniffare colla o annebbiare la sua tristezza con l’uso di marjuana ed eroina. Per questo, quando padre Riccardo, missionario saveriano, gli tende la mano, lui sa riconoscerla e si lascia salvare, riuscendo a resistere al richiamo della strada, che in bambini ormai induriti dalla vita è quasi sempre invincibile. «Oggi Shehab vive in Bangladesh in una casa-famiglia di don Benzi, studia in una scuola cattolica con profitto e passione, deciso a diventare "qualcuno"», dicono i volontari della Papa Giovanni XXIII. Anche se "qualcuno" lo è già, perché per la prima volta in vita sua è amato. «Fondamentale è l’amore – spiegano –, la condivisione di vita. I tokai sfidano ideologie e forse anche qualche teologia, urlano il loro diritto a essere persone umane».
PROSTITUZIONE
«Mi ha liberato da una schiavitù
Ora riceverò il Battesimo e sarò tutta di Dio»
Blessing aveva 16 anni nel 2008, quando con la promessa di un lavoro ha lasciato la Nigeria. Insieme ad altre ragazzine è partita per un viaggio durato un anno, prima a bordo di pullman e camion fino alle soglie del deserto, poi a piedi, tra stenti e violenze di gruppo, mentre le sue amiche morivano e venivano abbandonate lungo il cammino. «Io tenevo duro e sopportavo tutto, perché a Milano mi aspettava un negozio di parrucchiera e un salario altissimo». Così le aveva promesso una donna in Nigeria, che in cambio le aveva chiesto 70mila euro, cifra impossibile anche solo da immaginare, «ma mi ha detto che non occorreva che glieli dessi subito, che in Italia li avrei guadagnati in pochi mesi e solo allora avrei dovuto pagarla». Ma a Milano invece di negozio e stipendio l’attendono «un materasso tra i rifiuti in una strada buia e dieci euro per ogni rapporto, ma potevo tornare a casa solo quando ne avevo in tasca 200. Quindi dopo venti uomini a notte». Tante volte Blessing prova a scappare, tante volte è tradita dalle sue compagne. È in un vicolo cieco. «Finché non mi ha vista rannicchiata a terra in stazione una ragazza nigeriana già liberata da don Benzi e diventata una sua volontaria: mi ha portata con sé nella casa-famiglia, dove da sei mesi sono tornata alla vita». Sono molte migliaia le ragazze come lei salvate da don Oreste, che la notte le andava a cercare e, tirato giù il finestrino, non chiedeva «quanto costi?», ma «quanto soffri?». Così le faceva innamorare di Cristo. Blessing oggi ha chiesto il battesimo, perché «voglio pregare per sempre un Dio di bontà».
CARCERE
«La mia gioventù balorda tra le sbarre
riscattata un prete che ha dato fiducia»
L’uomo non è il suo errore». È una delle folgoranti affermazioni di don Benzi, che sul mondo sofferente e negletto dei carcerati si è chinato fin dai primi anni ’90. Nelle tante strutture che oggi la Papa Giovanni XXIII dedica ai detenuti come alternativa alla carcerazione, la persona non viene definitivamente identificata con l’errore che ha commesso, ma instradata a riconoscerlo e accompagnata alla riabilitazione. E poiché le parole hanno un senso, i detenuti accolti sono chiamati “recuperandi”. «Un recuperando diventai anche io», racconta Benedetto, oggi operatore alla Casa Madre del Perdono di Rimini, dove ormai è lui ad accogliere le persone in pena alternativa al carcere. Aveva 13 anni la prima volta che la madre gli fece firmare alcune cambiali a nome del fratello e in premio gli diede del denaro. A 14, dopo truffe e rapine, era già in carcere, a 18 la prima condanna lunga. «La permanenza in prigione crea rabbia – sa per esperienza –, la persona è annullata, perde tutto, autostima, dignità, affetti». Anche sua figlia non lo ha più voluto vedere e al suo bimbo negava l’esistenza di quel nonno detenuto. Nel 2007 l’arrivo alla Casa Madre del Perdono. Oggi è un uomo nuovo e ha ritrovato il rispetto della figlia: «Dopo due anni di lettere in cui le raccontavo il mio miglioramento, il giorno del mio compleanno mi ha chiamato». L’Associazione Papa Giovanni XXIII nei suoi tanti progetti in tutta Italia ha accolto centinaia di detenuti e solo l’8% di chi ha portato a termine il programma di recupero è tornato a delinquere, contro una media nazionale di recidiva del 75%.
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