venerdì 30 luglio 2010
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Il campanello della porta che suona, il generale che si presenta a casa tua, e tu che hai già capito tutto. Perché quando un marito e una moglie si amano come me e Giuseppe, che eravamo una sola persona, certe cose si sanno prima ancora che vengano dette. Era il 12 novembre di sette anni fa, ma tutto mi è ancora perfettamente impresso nella memoria. Venne il generale Giuliani. Ricordo i suoi passi, così pesanti che non riuscivano a varcare la soglia di casa. Li vedevo al rallentatore perché la mente li rifiutava, il cuore presagiva che cosa venivano a dirmi. Sapeva che quella che fino ad allora era solo una paura, un istante dopo, se l’avessi lasciato entrare, sarebbe diventata una realtà. Quell’ultimo gradino è durato un’eternità, poi il generale mi ha abbracciato in silenzio e ha iniziato a piangere, io mi sono piegata su me stessa, nessuno dei due ha parlato. Ogni volta che in una missione di pace muore un nostro militare è un copione che si ripete, e per ognuna di noi mogli è la ferita che di nuovo sanguina. Ancora di più oggi, che è proprio il giorno in cui ventidue anni fa mi unii in matrimonio a Giuseppe. Ho rivisto in televisione e riletto sui giornali lo stesso mio abisso di dolore, soprattutto mi sono identificata nelle parole pronunciate da Katia, moglie del caporalmaggiore Davide De Cillis, che come me si è trovata la casa piena di giornalisti e telecamere: «Padre, marito, amico, fratello e figlio esemplare, vero, sincero e autentico».Così ha provato a spiegare chi era suo marito, ed è esattamente ciò che ho sentito quando Giuseppe è stato ucciso a Nasiriyah e la sua divisa di carabiniere gli è bruciata addosso, perché era la sua pelle. Nelle parole di questa giovane moglie ho ritrovato l’orgoglio di chi sa che suo marito, pur conoscendo il pericolo, ha scelto di rischiare per il prossimo. Molti mi chiedono «ma perché li lasciate partire?». Domanda senza senso: una moglie, e ancor più la moglie di un militare, condivide i valori di altruismo e si allea con il proprio marito perché, se i nostri figli vivono nell’agio, molti altri figli su questa terra pagano le conseguenze di guerre volute dagli adulti. A Katia e a Vita Maria, moglie del primo maresciallo Gigli, voglio dire che siano fiere, perché la vita ha comunque un inizio e una fine, e se un uomo crede in qualcosa fino al punto di andare lontano dai propri affetti e rischiare in prima persona per un fine nobile, ne sarà valsa la pena. Gigli, intuito il pericolo, ha fatto allontanare gli altri e con De Cillis è rimasto sul posto: questo è eroismo, non retorica.Ai giornalisti le due donne hanno raccontato il dramma dei perché che in queste ore buie non trovano risposta, hanno prefigurato un futuro vuoto, incolmabile, fatto di silenzi e di abbracci che non sentiranno più, e purtroppo non sbagliano. Né posso promettere loro che il tempo cancelli ogni cosa, anche se è vero che il dolore si affievolisce, e meno male, perché nessuno potrebbe sopravvivere a lungo a una sofferenza tanto intensa. Ma mi permetto di dire che nei figli troveranno la forza e il coraggio, perché in loro continua a vivere la carne e lo spirito dei nostri uomini. Ci sono giorni in cui si ha voglia di lasciarsi andare, invece sai di essere madre e hai il dovere di alzarti ogni mattina come tutte le mamme. Anzi, ora devi essere madre e padre insieme, e sentirti moglie anche se lui non c’è più. Saranno tempi duri, dovranno crescere da sole i propri figli, ma dovranno anche difendere l’intimità della loro famiglia, tutelare se stesse e le loro creature, aprendo le porte di casa ai pochi veri affetti e lasciando fuori tutto il resto. Dopo i giorni del fracasso mediatico, i riflettori si spegneranno e i tanti che ora si affrettano a dire «io ero suo amico» spariranno nel nulla: è allora che dovranno saper riprendere in mano la propria vita e tenere il punto fermo sui figli, il motore che ci porta avanti.Io, che prima di mio marito ho perso anche un bimbo per leucemia, in queste ore penso soprattutto al piccolo che da quattro mesi cresce nel grembo di Katia e deve ancora nascere. Mi dicono che si chiamerà Davide come suo papà, così gli auguro di portare il nome ma non il peso di questa scomparsa, con accanto – ma non sopra – il grande esempio di suo padre, un esempio che indichi dei valori ma non schiacci. Così come alle madri auguro di difendere il loro ruolo, di rimanere se stesse, con la propria identità, perché siamo persone prima ancora che “mogli di”. Oggi mi resta Maria e la cresco da sola. Katia da sola affronterà anche il parto. Ma io so, per averlo sperimentato, che i nostri mariti ci sono accanto, e soprattutto ci è vicino Iddio, quel Padre buono che non ci abbandona mai, nemmeno quando gridiamo contro il cielo. Nemmeno quando diciamo di non credere.
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