martedì 9 gennaio 2018
La «sorgente vulcanica» osservata dagli esperti mentre analizzavano la sequenza anomala di scosse registrate nell’area del Sannio-Matese tra il 2013 e il 2014: «Potrebbe innescare nuove scosse»
La zona del Sannio-Matese al centro degli studi dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia dopo la sequenza anomala di scosse registrate tra il 2013 e il 2014

La zona del Sannio-Matese al centro degli studi dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia dopo la sequenza anomala di scosse registrate tra il 2013 e il 2014

COMMENTA E CONDIVIDI

«Scorre magma sotto l'Appennino». Bisogna tornare indietro di quattro anni per capire il significato della scoperta annunciata in queste ore dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. E precisamente al periodo compreso tra il 29 dicembre del 2013 e il 20 gennaio del 2014, quando il tratto di dorsale appenninica che si estende dall’Abruzzo alla Basilicata, in cui è inclusa l’area del Sannio-Matese (con le città di Benevento, Campobasso e Isernia), fu al centro di un’infinita sequenza di scosse sismiche, con picchi fino a 5 gradi della scala Richter.

Niente di nuovo da quelle parti: il Sannio in passato è stato sconvolto da numerosi terremoti, il più violento dei quali – nel 1688 – arrivò a una potenza di quasi 7 gradi sulla scala Richter e distrusse decine di paesi e città, causando la morte di quasi diecimila persone. Ma quelle scosse registrate tra il 2013 e il 2014 agli esperti erano sembrate subito anomale, sia per la profondità a cui s’erano innescate (superiore rispetto a quella usuale) sia per le forme d’onda degli eventi più importanti, simili a quelle dei terremoti in aree vulcaniche. Risultato? A innescarle è stata proprio una sorgente di magma, che scorre sotto l’Appennino meridionale e che potrebbe tornare a generare terremoti con magnitudo significativa anche in futuro.

«Ora abbiamo nuovi strumenti contro i terremoti»

Ad annunciarlo, in uno studio appena pubblicato su Science Advances, un gruppo di ricercatori dell’Ingv e del Dipartimento di fisica e geologia dell’Università di Perugia guidati dagli esperti Francesca Di Luccio e Guido Ventura: «Le catene montuose sono generalmente caratterizzate da terremoti riconducibili all’attivazione di faglie che si muovono in risposta a sforzi tettonici» hanno spiegato i due. Peccato che, studiando la sequenza sismica sannita, «abbiamo scoperto che questi terremoti sono stati innescati da una risalita di magma nella crosta tra i 15 e i 25 chilometri di profondità».

Che cosa significa? Che gli esperti hanno a disposizione strumenti nuovi per analizzare la sismicità e, in futuro, arrivare a prevederla: «I risultati fin qui raggiunti – ha spiegato la geofisica Di Luccio – aprono infatti nuove strade non solo sui meccanismi dell’evoluzione della crosta terrestre, ma anche sulla interpretazione e significato della sismicità nelle catene montuose ai fini della valutazione del rischio sismico correlato». Risultati – quelli relativi alla risalita dei magmi in zone non vulcaniche – che ora saranno applicati anche ad altre grandi catene come l’Alpino-Himalayana, Zagros (tra Iraq e Iran), le Ande e la Cordigliera Nord-Americana.

Tra migliaia di anni un nuovo vulcano

Ma spunta anche un’altra ipotesi suggestiva: sebbene sia da escludere «che il magma che ha attraversato la crosta nella zona del Matese possa arrivare in superficie formando un vulcano – ha aggiunto Giovanni Chiodini, geochimico dell’Ingv –. Tuttavia, se l’attuale processo di accumulo di magma nella crosta dovesse continuare non è da escludere che, alla scala dei tempi geologici (ossia migliaia di anni), si possa formare una struttura vulcanica».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: