martedì 20 ottobre 2020
Mancano centri e laboratori pubblici specializzati per i tamponi, persa un’occasione in estate. L’Ats lombarda ammette: non riusciamo più a mettere in isolamento le persone
La fila di pazienti in attesa di effettuare il tampone davanti a un laboratorio a Napoli

La fila di pazienti in attesa di effettuare il tampone davanti a un laboratorio a Napoli - Ansa

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Al ritmo di 300 casi al giorno, quest’estate, quando mezza Italia era al mare e l’altra metà riassaporava l’ebbrezza di spostarsi in bici nelle città vuote, tutto filava liscio sul fronte del tracciamento dell’epidemia: niente casi in ospedale, molto screening sugli asintomatici (che al tampone arrivavano per l’“incidente” di un sierologico positivo, un po’ per volta, gradualmente). Facile trovare il Covid, allora, e facile bloccare i suoi tentacoli: dieci per caso, stimano gli esperti. Significa che la macchina del contact tracing messa in moto da un singolo nuovo positivo finisce, mediamente, per raccogliere almeno dieci potenziali “contatti” contagiati. Su cui poi interviene l’altra macchina, quella dei tamponi, pronta a sentenziare quarantene o liberazioni.

Eccola qui, l’impalcatura che è stata travolta dalla seconda ondata dell’epidemia molto prima dei reparti di terapia intensiva o dei Pronto soccorso negli ospedali. Un costrutto già di per sé fragile, va detto: quei ritmi blandi, quei soli 300 casi al giorno, non hanno spinto il Paese ad attrezzarsi di centri e laboratori pubblici specializzati che processassero più tamponi (sono meno di 50 da Nord a Sud, negli ultimi anni sono stati più volte “tagliati” e accorpati in assenza di esigenze epidemiologiche particolari) e nemmeno di personale (anche questo ridotto dal 25 al 30% nel corso degli anni).

I dati li hanno ricordati al governo gli infettivologi, riuniti a convegno nei giorni scorsi. Certificando l’errore di non aver coinvolto i medici di base nella procedura delle diagnosi attraverso i test rapidi: a tutt’oggi, nonostante la loro disponibilità, questi ultimi non hanno il permesso di fare diagnosi. Pensare che con la prima fiammata di fine agosto – quando dai 300 casi siamo passati ai 1.300 per intendersi – quella macchina ha persino dimostrato di potersi superare: il numero di tamponi quotidiani è andato via via crescendo, fino a raddoppiare e addirittura triplicare le performance della scorsa primavera.

Ma era già tardi, e le code ai drive- in evocate persino dal premier Conte nella sua conferenza stampa domenicale sono state un campanello d’allarme tardivo: di dieci contatti in dieci contatti, con le città che hanno ripreso a pieni ritmi produttività e scuola, coi mezzi pubblici e i supermercati e persino i ristoranti stracolmi, il bandolo della matassa s’è perso in fretta. Il virus è tornato a fare il virus. Lo sanno bene a Milano, passata in dieci giorni da una media di 100 casi al giorno a oltre 800.


L’indagine
Il pilastro fondamentale del “contact tracing” è l’indagine sui contatti stretti di un positivo: più è tempestiva, più in fretta si interrompe la catena dei contagi.


L’isolamento
Individuare e avvertire i contatti di una persona positiva fa scattare subito l’isolamento fiduciario preventivo: è lo strumento che previene gli eventuali contagi in attesa di una diagnosi.


Il tampone
Il tampone è l’ultimo passo da compiere: se negativo, la macchina libera i soggetti a rischio.
Se positivo, la catena dei contagi è già stata interrotta: ora serve solo il rispetto della quarantena.

E dove ieri l’Ats ha cla- morosamente issato bandiera bianca: «Non riusciamo più a tracciare tutti i contagi, a mettere noi attivamente in isolamento le persone – ha ammesso a metà giornata il direttore Vittorio Demicheli –. Chi sospetta di aver avuto un contatto a rischio o sintomi stia a casa ». È la certificazione di impotenza e la prima, ufficiale richiesta di un autolockdown. Poco dopo la ribadisce uno non proprio abituato a toni allarmistici come Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo): «Abbiamo la percezione che il sistema di tracciamento dei contatti non stia più funzionando, perché il numero dei contagiati da Covid sta aumentando in modo spropositato ».

E se il sistema di tracciamento salta «è chiaro che non c’è più contenimento della pandemia ». Dunque bisogna da un lato «rafforzare subito il personale delle Asl dedicato al contact tracing » spiega Anelli, dall’altro procedere «all’autolockdowngentile ». I medici, insomma, stanno chiedendo ai cittadini molto di più dell’uso della mascherina e del distanziamento: cioè di applicare da soli misure autorestrittive in barba a protocolli e regole per le quarantene, al momento chiaramente superate dai contagi. Che, nel frattempo, continuano a crescere: 9.338 ieri, a fronte però – e torniamo al punto di partenza – del fisiologico crollo di tamponi domenicale (poco più di 98mila quelli effettuati in 24 ore), un altro punto debole del sistema ormai da mesi. Perché se è vero che nel weekend il tracciamento rallenta, lo stesso non vale per il Covid, che continua a correre. Sottotraccia.

Ed è proprio la percentuale tra tamponi e nuovi positivi adesso a preoccupare di più gli esperti: ieri per la prima volta ha sfondato la soglia del 9%, guardando al numero totale di test. Si è spinta, in realtà, fino al 14,2% se si tolgono dal totale i tamponi di controllo, quelli cioè che si fanno sui pazienti già risultati positivi per certificarne la guarigione. Troppi, anche in questo caso a discapito della tempestività del tracciamento. In base all’ordinanza del ministero della Salute di settimana scorsa (quella che rivedeva i tempi della quarantena con la riduzione dei due tamponi a uno) maggiori risorse dovrebbero essere liberate in questo senso. Più prime diagnosi più controllo dei contagi, il ragionamento sulla carta.

Ma il controllo adesso è un puntino sull’orizzonte. Mentre l’app Immuni, di cui ieri s’è celebrato il debutto internazionale (i codici comunicheranno con quelli di altri Paesi europei), resta al palo dei 9 milioni di download e dell’incapacità da parte delle Ats di utilizzarla.

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