giovedì 23 luglio 2015
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«Internet, i suoi forum e i vari social network sono pieni di ogni cosa: dichiarazioni a vanvera, millanterie, ma anche propaganda vera e propria e minacce effettive. Il lavoro di crivello investigativo per dividere le une dalle altre, dando precedenza alle situazioni di rilievo, non è semplice, anzi è faticoso, ma va condotto ogni giorno senza sosta...». Il direttore dell’Antiterrorismo della Polizia di prevenzione Lamberto Giannini non ama gli allarmismi: «Non abbiamo riscontrato la presenza di vere e proprie cellule terroristiche radicate in Italia», puntualizza, ma «i due arrestati, per quanto ci risulta, non erano degli sprovveduti...». La presunta 'ingenuità' dei due arrestati nel postare i 'selfie' minatori su Internet non sarebbe dunque un fattore di minor pericolosità? No, quei due volevano lanciare un messaggio di paura. Studiavano come avvicinarsi alle basi che avevano messo nel mirino. E appena hanno avuto la sensazione, in base alla diffusione di notizie sulla stampa, che ci fosse una maggiore attenzione sulle loro azioni, hanno adottato un cambiamento di abitudini e rallentato l’attività telematica di propaganda jihadista. Il tunisino avrebbe messo su Twitter foto scattate sulla spiaggia di Sousse. C’è traccia di legami con la strage del 1° luglio? Allo stato delle indagini, non riteniamo che ci siano collegamenti con quell’attentato. In base a ciò che sappiamo, l’indagato aveva in programma quel viaggio da tempo per trascorrere il periodo del Ramadan insieme alla sua famiglia. Siete intervenuti perché c’era il rischio di eventuali attentati in Italia? Siamo intervenuti, in assoluta sintonia coi magistrati che hanno coordinato l’inchiesta, perché avevamo acquisito un solido materiale probatorio sulle attività compiute dagli indagati, sottoponendoli a investigazioni costanti e minuziose, compiute dalla Digos di Milano insieme alla Polizia postale e in costante contatto coi nostri uffici dell’Antiterrorismo. I due arrestati agivano in proprio? O avevano contatti con elementi collegati alla filiera estera dell’Is? È emerso qualche contatto con soggetti che si troverebbero in zone di combattimento presidiate dallo Stato islamico, oltre al tentativo di agevolare una persona che voleva partire... Quanto potrebbe essere ampia, a suo parere, l’area di potenziale radicalismo nel nostro Paese? È difficile inquadrarne i contorni, anche perché Internet fa da enorme volano alla propaganda jihadista. La diffusione della rivista Dabiq, realizzata dall’Is, può raggiungere anche singoli individui, autonomi e lontani da reti strutturate e dunque più difficili da individuare. Inoltre, c’è da vigilare sul fenomeno dei combattenti di rientro da zone di conflitto dove sono attivi gruppi legati all’Is, seppur ancor limitato in Italia rispetto ad altri Paesi come la Francia o gli Stati nord europei. Ci sono aree o regioni italiane più monitorate? In passato, forse erano le regioni del Nord per la presenza di folte comunità stanziali di fede islamica con qualche predicatore dai toni accesi. Oggi l’attenzione per individuare l’attività di eventuali elementi con propensioni radicali è alta in tutta Italia.
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