martedì 14 febbraio 2023
Morte in Svizzera di una malata di Parkinson, indagine a tempo di record: la Procura estende il concetto di “sostegno vitale” e chiede l’archiviazione per Marco Cappato e due attiviste
Cappato con le due attiviste Felicetta Maltese e Virginia Fiume a Bologna

Cappato con le due attiviste Felicetta Maltese e Virginia Fiume a Bologna - Fotogramma

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Cos’è un «sostegno vitale»? Per la legge sulle Dat (articolo 1, comma 5) «la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale», e così per la Corte costituzionale, che nella sentenza dj Fabo-Cappato del 2019 parla di «trattamenti di sostegno vitale» rimandando alla legge di due anni prima. Chiamata in causa dall’autodenuncia dello stesso Cappato e di due attiviste – Felicetta Maltese e Virginia Fiume – che avevano aiutato a morire in Svizzera Paola, 89enne bolognese malata di Parkinson, la Procura di Bologna ieri ha esteso il concetto ben oltre i confini tracciati da legge e Consulta: la nozione di “sostegno vitale” sarebbe da intendersi «come comprensiva anche di quei trattamenti di tipo farmacologico, interrotti i quali si verificherebbe la morte del malato anche se in maniera non rapida».

Una forzatura che aprirebbe il suicidio assistito a decine di migliaia di malati. L’estensione «a situazioni ulteriori rispetto al collegamento della persona con un macchinario che ne assicuri la persistenza delle funzioni vitali» è il concetto sul quale il procuratore Giuseppe Amato ha costruito la richiesta di archiviazione del fascicolo, aperto solo giovedì scorso (la morte di Paola è di mercoledì: un vero record giudiziario).

In attesa che decida il gip, si aprono numerose e preoccupate domande tra chi si occupa da tempo dei nodi giuridici e clinici del “fine vita”. Emanuele Bilotti, che insegna Diritto privato all’Università Europea di Roma, riporta la questione ai suoi termini essenziali: «La sentenza della Corte costituzionale del 2019 – è il suo ragionamento – ha individuato con chiarezza delle ipotesi eccezionali in cui la condotta di aiuto al suicidio non è punibile. La sentenza parla appunto di una “circoscritta area di non punibilità” dell’aiuto al suicidio. È solo in questa “circoscritta area” che è stata ritenuta l’incostituzionalità della norma incriminatrice dell’aiuto al suicidio. Se la Corte costituzionale avesse inteso riconoscere un ambito di incostituzionalità più esteso, avrebbe individuato diversamente i limiti della non punibilità della condotta di aiuto al suicidio». Dunque, aggiunge il giurista, «l’interprete non può proporre letture estensive dei requisiti sostanziali fissati nella sentenza della Corte costituzionale. Neppure sembra ipotizzabile un’ulteriore rimessione della questione alla Corte costituzionale. Ben difficilmente, infatti, una simile questione potrebbe superare il filtro della “non manifesta infondatezza”. E ciò perché quella questione potrebbe essere accolta solo da una Corte costituzionale disposta a smentire totalmente il proprio precedente del 2019. Il che è francamente inverosimile». Occorre conoscere la sentenza della Consulta prima di allargarne i limiti, dettati con estrema precisione dai giudici costituzionali, per non finire fuori dal recinto delle fonti del diritto, come rischia di fare la Procura bolognese se dovesse assecondare gli argomenti del pm: «Il requisito per cui chi chiede l’aiuto al suicidio deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale – spiega Bilotti – non è certo una creazione arbitraria della Corte costituzionale. Quel requisito è stato infatti argomentato dalla Corte a partire dal fatto che, in base alla legge 219 del 2017 il paziente può già decidere di “accogliere la morte” in conseguenza dell’interruzione di un trattamento in atto di sostegno delle funzioni vitali. Solo in questa condizione – è questo il ragionamento della Corte – non può essergli precluso di anticipare di poco, attraverso il suicidio assistito, una morte che si verificherebbe comunque, entro uno spazio di tempo assai breve, a seguito dell’interruzione di quei trattamenti». E «il caso del malato di Parkinson che decida di interrompere le terapie farmacologiche prescritte per la cura della patologia che lo affligge non è evidentemente neppure lontanamente paragonabile a quello considerato dalla Corte costituzionale. L’assistenza al suicidio prestata a questo malato non può pertanto farsi rientrare nella “circoscritta area” di non punibilità individuata dalla Corte costituzionale». Ma non basta: secondo Bilotti «bisognerebbe capire se nel caso di specie risultino integrati anche gli altri requisiti rilevanti per la non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, a cominciare dal coinvolgimento del paziente in un percorso di cure palliative, che – come dice la Corte costituzionale – deve costituire un pre-requisito della scelta suicidaria. Ciò vuol dire che, affinché l’aiuto al suicidio non sia punibile, il paziente deve aver acconsentito in precedenza all’attivazione di trattamenti palliativi diversi dalla sedazione profonda».

Il palliativista Marcello Ricciuti, membro del Comitato nazionale per la bioetica (Cnb), si chiede cosa sarebbe successo «se la paziente affetta dal morbo di Parkinson fosse stata presa in carico da un'équipe di cure palliative, prima di fare questa scelta irreversibile. Le cure palliative possono molto – certo non tutto – per aiutare ad affrontare dignitosamente le fasi avanzate anche di queste malattie neurodegenerative, e lo fanno ogni giorno, in migliaia di pazienti e in silenzio, senza clamore mediatico». Da clinico Ricciuti ritiene che «non è francamente sostenibile l'estensione dei supporti vitali alle terapie farmacologiche o a qualsivoglia terapia da cui non dipende immediatamente la vita del paziente. Estensivamente ogni intervento medico sostiene la vita dei pazienti affetti da gravi patologie, ma non per questo ogni intervento è configurabile come uno strumento di supporto vitale. È evidente che in questo caso si vuole eliminare ogni condizione per consentire il suicidio assistito, e questo non lo vuole neanche la Corte».

Proprio alla medicina fa appello il presidente di Scienza & Vita, il giurista Alberto Gambino, per il quale «appare irragionevole e foriero di incertezze legali lasciare all’interpretazione della magistratura la definizione di trattamento di sostegno vitale, che invece andrebbe indicato secondo una rigorosa accezione medico-sanitaria. Altrimenti viene meno la missione propria di ogni ordinamento giuridico democratico, che sta nel trattare con omogeneità ed eguaglianza ogni cittadino specie se fragile e vulnerabile».

Anche a un altro giurista come Domenico Menorello, componente del Cnb e coordinatore della rete di associazioni laicali cattoliche “Sui tetti”, la tesi del pm pare «una forzatura ideologica della sentenza del 2019. L’ideologia è quella di un individualismo esasperato che vuole mandare un messaggio pubblico di disvalore sulla vita di chi non è pienamente capace di successo sotto le specie di una autodeterminazione, anch’essa pura astrazione perché la necessità di farmaci continuativi è una condizione diffusissima, che certamente non corrisponde al senso di ciò cui voleva riferirsi la Corte costituzionale. Ognuno giudichi se ritiene per sé ragionevole essere considerato a dignità variabile».


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